Running e fascite plantare L’importanza della fisioterapia nello sport più praticato di sempre

Running e fascite plantare L’importanza della fisioterapia nello sport più praticato di sempre

La corsa è un processo semplice e complesso allo stesso tempo.

 Semplice perché correre è alla portata di tutti, complesso perché quest’attività sportiva,

 una delle poche che la maggior parte delle persone pratica senza un vero e proprio apprendimento iniziale,

 in realtà richiede di conoscere determinate informazioni e di rispettare certe regole

 affinché la corsa diventi e rimanga un piacere

Gli effetti benefici della corsa sono ormai noti:

-diminuisce lo stress, allontana i problemi di salute (vita sedentaria, diabete, obesità, ictus, fumo, malattie cardiovascolari, insorgenza di tumori);

-aumenta l’aspettativa di vita, un runner vive in media tre anni di più rispetto ad un non corridore ed è un toccasana per la mente. 

La corsa potremmo considerarla uno sport accessibile a tutti, che scavalca i limiti geografici e sociali, richiede poca attrezzatura, anche solo un paio di scarpe, ed ognuno può praticarlo in base alle proprie capacità. 

Uno studio Delphi del 2015 definisce un infortunio associato alla corsa come “un dolore muscoloscheletrico, correlato alla corsa, negli arti inferiori (nell’allenamento o durante la gara) che provoca una limitazione o cessazione della corsa (distanza, velocità, durata, allenamento) per almeno sette giorni o per almeno tre allenamenti consecutivi programmati o che necessiti di un consulto medico o con un altro professionista della salute “.

Insieme al numero di runners, è però cresciuto anche il numero di infortuni da sovraccarico agli arti inferiori, che si stimano tra l’11 e 85%.

In uno studio del 2019 si è dimostrato come l’80% dei corridori avesse riportato nella sua storia di corsa almeno uno o più infortuni legati all’attività.

Gli infortuni più frequenti sono a carico del piede, del ginocchio, dell’anca e della colonna lombare:

Wiegand et al. hanno osservato come le patologie più frequenti riscontrate sono: sindrome della bandelletta ileotibiale (34%), fascite plantare (30%), stiramento dei muscoli dell’anca (25%), shin splints (sindrome da stress del tibiale) (22%), mentre negli ultra maratoneti la tendinopatia achillea e la sindrome femororotulea sono le principali patologie riscontrate. 

Si stima che il 29.5% degli infortuni avviene nei novice runner, parola usata per definire una persona che non ha mai approcciato alla corsa in passato in maniera regolare.

Nonostante molti runners sperimentano nella loro carriera diversi infortuni, non li considerano tali finchè il dolore non compromette la loro performance di corsa.

 

La causa degli infortuni è multifattoriale e spesso sono chiamati in causa sia fattori di rischio intrinseci che estrinseci; in generale sono stati documentati, alcuni modificabili e altri non. La storia di precedenti infortuni, la distanza percorsa a settimana, la frequenza di allenamento, variabili biomeccaniche come l’aumento dell’angolo q dinamico sono solo alcuni dei fattori di rischio indagati.

Alcuni fattori intrinseci sono l’avanzare dell’età, BMI elevato, storia di traumi o infortuni, diversa lunghezza tra i due arti, mal allineamenti anatomici, postura dei piedi, errati carichi sul piede.

 I fattori estrinseci riguardano invece il livello di preparazione, sovra allenamento, il tipo di scarpa e la superficie di corsa.

In base all’infortunio, si può indagare la causa che lo ha generato e concentrandosi sul parametro che lo ha influenzato in maniera maggiore, si modifica l’allenamento.

Alcuni infortuni vengono classificati come patologie di carico e si verificano dopo sessioni di allenamento in cui lo stress meccanico è il risultato eccessivo per il fisico: corsa, salti, dislivelli eccessivi. Le patologie da ripetizione invece tendono a comparire più spesso durante gli allenamenti dove vengono ripetuti gli stessi movimenti. 

Come scritto precedentemente uno degli infortuni maggiori per i runners è la fascite plantare;

 

Cosa è la fascite plantare? 

La fascite plantare è un disturbo muscolo-scheletrico caratterizzato da dolore sulla parte mediale del calcagno e, talvolta, dolore in corrispondenza della fascia plantare, è peggiore la mattina quando si compie il primo passo o comunque compare dopo un lungo periodo di inattività.

Una volta che il paziente inizia a camminare, tende a diminuire.

I sintomi si alleviano, ma non scompaiono del tutto durante il corso della giornata e sono esacerbati da attività come cammino o attività fisica prolungata.

 

Come avviene la diagnosi?

Le linee guida del 2014 affermano come la diagnosi di fascite plantare venga effettuata clinicamente in anamnesi tenendo conto dei seguenti sintomi:

1) Dolore al primo passo dopo un periodo di inattività o stazione eretta prolungata

2) Dolore tipico al mattino, al risveglio.

I test dell’esame fisico che mi possono confermare la diagnosi sono:

  • dolore alla palpazione nell’inserzione prossimale al calcagno della fascia plantare,
  • positività ai test clinici (windlass test),
  • negatività al tarsal tunnel test
  • limitato rom attivo e passivo in dorsiflessione di tibio tarsica,
  • anormale appoggio del piede (foot index score alterato) 

L’imaging di solito non è necessario per la diagnosi, tuttavia è un ottimo strumento per fare rule out con altre patologie e rilevamenti radiologici frequenti come gli speroni calcaneari non sono utili a distinguere pazienti con fascite plantare e non, in quanto possono essere presenti anche in pazienti asintomatici. 

Come si tratta?

Il trattamento della fascite plantare è per il 90% -95% dei pazienti conservativo (con fisioterapia) con risoluzione dei sintomi intorno alle 12-18 settimane.

A ragione di questo, può essere considerata una patologia cronica che può portare a disabilità e limitazione nelle attività sia di vita quotidiana che sportive se non trattato adeguatamente.

Dai sei mesi fino all’anno di fallimento della terapia conservativa, si può pensare di ricorrere alla chirurgia. 

Nel 2014 sono state redatte delle Linee Guida per la diagnosi e il trattamento della fascite plantare. Per quanto concerne il trattamento abbiamo diversi tipi di intervento:

  • Terapia Manuale con mobilizzazioni delle articolazioni e dei tessuti molli per trattare rilevanti restrizioni articolari o deficit di estensibilità dei tessuti molli degli arti inferiori
  • Stretching: stretching della fascia plantare, del soleo e del gastrocnemio garantiscono sollievo dal dolore a breve termine (da 1 settimane a 4 mesi). L’aggiunta di imbottiture per il calcagno potrebbe essere consigliata per aumentare i benefici dello stretching
  • Taping: taping antipronazione dovrebbe essere utilizzato per un’immediata riduzione del dolore e aumento della funzionalità. Tape elastico terapeutico applicato al gastrocnemio e alla fascia plantare per ottenere una riduzione del dolore a breve termine (1 settimana)
  • Splint notturni: dovrebbero essere prescritti per un arco temporale di 1-3 mesi in particolare per quei pazienti che lamentano un intenso dolore durante l’esecuzione del primo passo dopo il risveglio.
  • Esercizio terapeutico e rinforzo neuromuscolare: esercizi di rinforzo e allenamento dei muscoli che controllano la pronazione e attutiscono le forze durante le attività in carico
  • Educazione e perdita di peso: consigliare ed insegnare al paziente esercizi funzionali per mantenere un BMI ottimale ed eventualmente indirizzarlo ad un dietologo per impostare una nutrizione corretta
  • Laser e ultrasuoni ed onde d’urto
  • Esercizi e consigli specifici per il return to sport  

Nel 2005 Davis parla del processo di ri-allenamento alla corsa caratterizzato da tre punti:

1)identificare il meccanismo anomalo biomeccanico che ha causato un eccessivo carico sul tessuto

2) stabilire se i meccanismi di corsa sono stati alterati

3) facilitare il cambiamento verso meccanismi di corsa corretti e attraverso il motor learning e consolidare l’apprendimento insegnato.

 

E quindi?

Il trattamento prevede una fase di valutazione; l’obbiettivo è quello di capire il motivo della comparsa del dolore.

Solitamente in assenza di traumi al piede o ad altre articolazioni il dolore di fascite plantare è dato da un sovraccarico.

Una volta ridotto il dolore con le metodiche descritte precedentemente è necessario un programma di riallenamento, in modo da riadattare la fascia plantare e tutto l’arto inferiore, al carico

Ma come si fa?

Innanzi tutto è necessario fare una valutazione della corsa:

  • Durante la corsa l’ampiezza del passo deve essere corta: don’t ovestride!

Quindi appena il piede stacca dal terreno il tallone deve andare verso il gluteo

  • Per quanto riguarda la cadenza, dovrebbe essere tra i 165 e 175
  • Studi discordanti invece riguardo all’appoggio del piede, tuttavia pare che l’appoggio sul mesopiede risulti essere il migliore. 

Si procede quindi lavorando sul corretto schema di corsa, associando poi un lavoro più generico di coordinazione motoria, mobilità, controllo e stabilità non solo del piede ma di tutto l’arto inferiore.  

E per quanto riguarda le scarpe? Non ci sono studi che dimostrano che una scarpa sia migliore di un’altra, nessuna scarpa aiuta a ridurre la probabilità di infortunio da sovraccarico alla fascia plantare, quindi, usa le scarpe con cui corri meglio e che a te personalmente stanno più comode. 

Ricordati che la fascite plantare è un disturbo da sovraccarico, non pretendere di ritornare a correre subito gli stessi chilometri di prima, sul solito terreno.

Bisogna andare con gradi, dare tempo al corpo di riadattarsi al carico 

E per quanto riguarda il dolore?

Se ciò che ti stai chiedendo è se puoi correre con il dolore, la risposta non è così immediata

SI, puoi correre MA, il dolore deve rimanere sotto la soglia di 4 su 10

Il dolore non deve aumentare durante la corsa e la mattina successiva deve tornare a 0

Il dolore non deve peggiorare nei giorni successivi. 

Se e solo se il tuo dolore si comporta così, allora SI, puoi correre, ma ricordati, sempre gradualmente!

A cura di:

GIULIA SANGUINETTI, PT, OMPT

  • Orthopeadic Manipulative Physical Therapist (OMPT)
  • Fisioterapista dei disturbi vascuolo-linfatici
  • Fisioterapista esperta in fisio-pilates.
Distorsioni alla caviglia ed Esercizio Terapeutico

Distorsioni alla caviglia ed Esercizio Terapeutico

Lo sapevi che una distorsione alla caviglia rappresenta uno dei più frequenti traumi muscolo-scheletrici dell’arto inferiore?

L’incidenza dei traumi alla caviglia in media è di 11.5 per 1000 esposizioni negli sportivi, ma potrebbe coinvolgere anche la popolazione non sportiva con un’incidenza di 2/7 episodi ogni 1000 abitanti.

Molte persone  riferiscono di aver subito questo infortunio almeno una volta nella vita e spesso vengono indirizzate al medico di base o al pronto soccorso per valutare l’entità della lesione; altri invece non si recano da un professionista sanitario adeguato in modo tempestivo .

Spesso questi episodi traumatici si perdurano nel tempo  sviluppando nel paziente una instabilità cronica dell’articolazione.

In generale riscontriamo  :

  • Più frequente trauma muscolo scheletrico dell’arto inferiore
  • 30% dei traumi sportivi
  • Possibilità di recidiva e di cronicizzarsi
  • Costi sociali elevati .

I traumi alla caviglia hanno dei costi sanitari e sociali molto elevati, rappresentati dall’ingresso in ospedale, dall’esame diagnostico, dalla visita specialistica ,dai tempi di attesa e anche legati all’assenza dal lavoro o dalle attività sportive.

Clinica e Meccanismo traumatico

Diventa di fondamentale importanza l’inquadramento clinico e diagnostico della patologia in tempi  abbastanza celeri, per poter procedere alla formulazione di un piano riabilitativo in modo adeguato e completo.

Conoscere il meccanismo traumatico ci aiuta a capire quale struttura anatomica viene danneggiata per porre maggiore attenzione, purtroppo però non tutti i pazienti riescono a capire come è avvenuto nel dettaglio l’evento lesivo, inoltre a differenza di un infortunio del LCA in cui sentire il rumore è spesso patognomonico di lesione, in questo caso un rumore, a meno che non si tratti di frattura, non è strettamente legato ad una vera compromissione legamentosa.

Grazie alle video analisi cinematiche  è possibile riconoscere i meccanismi dovuti da anomali posizionamenti del piede associati a movimenti di rotazione, quindi dalla combinazione di 2 o più movimenti su più articolazioni vicine . Possono trattarsi di traumi da contatto e non, come il più delle volte capita.

 Un’ informazione fondamentale è se il paziente si è dovuto fermare subito e se ha avuto un edema precoce o ritardato, perché dà un indice di severità del trauma; questi aspetti si indagano comunque anche se si sanno non essere predittivi per il tempo di ritorno allo sport.

Si devono poi indagare eventuali precedenti traumi perché rappresentano il fattore di rischio più importante per avere recidive successive, inoltre probabilmente chi ne ha avute in passato potrebbe avere degli impairment che hanno determinato la seconda distorsione.

Si deve poi indagare la capacità al carico delle strutture ossee, tramite le  Ottawa Ankle Rule per trovare gli eventuali casi di fratture clinicamente significative; quando la si applica si deve tenere sempre presente che individua solo le fratture franche, non quelle piccole, soprattutto se sono del piede, per cui se dopo alcuni giorni il paziente non migliora comunque è consigliabile una lastra.

Come ultimo passaggio, dopo che si è definito che il paziente è di pertinenza del fisioterapista, si valuta la componente legamentosa.

Così è possibile individuare tre differenti zone di lesione :

  • LAS – distorsione laterale di caviglia
  • Lesione della sindesmosi
  • MAS- distorsione mediale di caviglia.

Come abbiamo già detto in precedenza da questi traumi distorsivi se:

  • permane un senso di instabilità ed episodi ricorrenti
  • vi fossero deficit funzionali auto-riferiti

 e fossero persistenti da  1 anno dal primo episodio traumatico , avremo una forma di instabilità cronica di caviglia (CAI) , che è dovuta dall’interazione di tre macrosistemi  : gli impairments  patomeccanicisensoriali percettivi e quelli dovuti dal comportamento motorio . Tutto questo è influenzato da quelle che sono le componenti personali, che sono i fattori demografici ( le persone più giovani sono le più sensibili ), storia medica (più patologie), componente fisica (BMI diverso), fattori esterni (un giocatore è influenzato dall’allenatore.. ) sono tutte quelle componenti che possono compromettere l‘iter riabilitativo.

Alla clinica  troveremo :

  • Dolore: la componente dolore è poco spiegata e non ha un pattern ben definito. ( potrebbe avere dolore mediale, dolore laterale o addirittura potrebbe anche non avere dolore e solo senso di instabilità ).
  • Deficit di mobilità articolare
  • Diminuzione della forza : sia a livello prossimo che distale
  • Alterato controllo neuromuscolare LOCALI : ritardato tempo di reazione della componente laterale della caviglia e ritardo nella fase pre-atterraggio. GLOBALI : deficit di reclutamento del medio gluteo, bilaterali, in soggetti con LAS ricorrenti
  • Deficit propriocettivi : danni recettoriali o un alterato “joint position sense”
  • Alterazione dell’equilibrio : sia statico che dinamico :
  • Attività funzionali: maggiore inversione durante la fase di “swing” e maggior tempo di appoggio della regione laterale della caviglia durante il cammino ,inferiore flessione (tightly packed position), parametri contrastanti su E/F anca e ginocchio, test funzionali (salto | atterraggio)

 

Trattamento ed Esercizio Terapeutico

In base alla diagnosi e alla clinica e prendendo in carico il paziente globalmente si procederà alla formulazione di un programma terapeutico individuale e specifico. Viene cosi fuori l’importanza nell’essere esaminati e supervisionati da specialisti del settore riabilitativo per arrivare ad un completa guarigione e per una prevenzione funzionale di possibili recidive .

Una terapia basata sull’esercizio terapeutico dovrebbe essere prescritta per il pieno recupero della funzionalità articolare.

Secondo la definizione dell’American Physical Therapy Association,  per  esercizio terapeutico si  intende una “sistematica e pianificata esecuzione di movimenti corporei, posture e attività fisiche intese a fornire al paziente i mezzi per:

  • Rimediare o prevenire danni strutturali
  • Migliorare, ripristinare o favorire una funzione fisica
  • Prevenire o ridurre fattori di rischio correlati alla salute
  • Ottimizzare lo stato di salute generale”.

Le modalità in cui viene utilizzato sono alcune delle seguenti :

  • Tecniche di controllo, inibizione e facilitazione neuromuscolare e allenamento propriocettivo
  • Controllo posturale
  • Esercizi di equilibrio e agilità
  • Procedure di allungamento muscolare
  • Esercizi per la performance neuromuscolare: training di forza, potenza e resistenza
  • Condizionamento e ricondizionamento aerobico
  • Esercizi per la respirazione e training dei muscoli respiratori
  • Task funzionali specifici.

Per i traumi alla caviglia sono consigliati programmi di esercizi terapeutici sul controllo neuromuscolare e sulla propriocezione.  Iniziati sin da subito già in fase acuta sono risultati essere efficaci sia per il recupero sia per ridurre le possibili recidive.

In fase acuta si consiglia di utilizzare il protocollo NICE & EASY

  • N-NSAIDs– in fase acuta i farmaci anti-infiammatori potrebbero influire sul processo di guarigione dei tessuti e sull’omeostasi del legamento, incrementare il sanguinamento, determinare ulcerazioni, ma nonostante ciò è consigliato ugualmente il loro utilizzo per permettere il controllo del dolore.
  • ICE (Ice, Compression, Elevation).
  • EASY (External Ankle Support Year), gli autori consigliano l’utilizzo di tutori per un anno perché probabilmente danno un aiuto nel processo iniziale di ripresa, diminuiscono il rischio di recidiva e non fanno cronicizzare il dolore.

L’esercizio modula il dolore sia in acuto che nel cronico , è importante tenere presente che il dolore durante l’esercizio terapeutico non rappresenta un ostacolo per il raggiungimento di risultati positivi, motivo per cui è consigliato affidarsi agli specialisti nel settore della riabilitazione per cui possono indirizzarvi e seguire nel percorso di guarigione migliore possibile .

I tempi di recupero e di progressione del trattamento riabilitativo devono essere adeguati al trauma subito, il fatto che ci siano ancora il 33% dei pazienti con dolore ad un anno è un indice fortissimo di come il trattamento attuale sia totalmente inadeguato, non bisogna fare troppo, troppo presto o troppo velocemente.

Il significato dell’optimal loading ovvero il giusto carico, è anche quello di iniziare a fare esercizi già durante la prima settimana per stimolare la guarigione corretta del tessuto, devono chiaramente essere esercizi semplici come flesso-estensioni della tibio-tarsica, contrazioni isometriche, triplice flessione dell’arto inferiore, attività in carico leggere; tutto ciò aiuta a migliorare la funzionalità nel breve termine e aumenta la compliance del paziente ma non incide sul dolore e sul gonfiore, il paziente ha meno paura di muoversi. In un’ottica di progressione è utile variare gli esercizi per ingaggiare in maniera diversificata i vari tessuti nella loro guarigione.

Bisogna far  riferimento ad Integrated Control Exercises, il quale  promuove il recupero del controllo sia per le vie motorie che per quelle sensitive del piede e della caviglia, permettendo un miglioramento della connessione tra cellula, tessuto e corpo.

È bene proseguire il protocollo EASY anche nel posto acuto . Il carico ottimale è basato sull’appropriata stimolazione cellulare e tissutale tramite la meccanotrasduzione e la stimolazione di fonti importanti di informazioni sensoriali all’interno della pelle, delle strutture articolari e della muscolatura.

Gli esercizi di controllo integrato dovrebbero avere come target i centri di controllo sia motorio che sensoriale della caviglia e delle strutture circostanti tramite mobilizzazioni articolari, massaggio plantare, stretching, esercizi resistiti progressivi .

Ad esempio, per migliorare la flessione plantare in carico una buona strategia può essere iniziare con l’esercizio base di heel rise, ovvero porsi davanti ad un muro e raggiungere con la flessione di ginocchio e il tallone appoggiato a terra il muro, poi fare lo stesso movimento in supinazione e in pronazione, a ginocchio flesso, a ginocchio esteso, in monopodalica, con sovraccarichi e così via, si deve diversificare l’esercizio terapeutico caricando le strutture in maniera differente; se un paziente non riesce a fare un determinato movimento in un certo modo, si parte facendogli fare una variante del movimento che non gli procuri dolore per condizionare la struttura e dare un carico che stimoli i processi di guarigione, poi pian piano si porta a stimolare anche il movimento doloroso.

È molto importante far capire al paziente che sentire un po’ di dolore mentre si fanno gli esercizi non è un male ma anzi dà uno stimolo in più alla guarigione, ma bisogna stare attenti a quanto tempo è passato dal trauma, se è ancora molto reattivo non va fatto.

L’allenamento dell’equilibrio dovrebbe iniziare in una fase precoce della riabilitazione e avere come focus la connessione tra corpo e persona. La progressione deve prevedere un passaggio da task semplici a task complessi e da situazioni prevedibili a situazioni imprevedibili, progressioni ulteriori possono includere gesti sport-specifici complessi. La letteratura al momento non è concorde sull’utilizzo di tutori mentre si eseguono questi esercizi, ma parrebbe meglio non farli usare se gli esercizi sono supervisionati e tenerli se dovessero essere fatti in autonomia.

La progressione deve prevedere un aumento trasversale e compatibile con lo stato di guarigione del tessuto, caricando sempre un po’ di più, lavorando con esercizi di equilibrio statico e dinamico. Gli esercizi propriocettivi devono iniziare dal semplice e avere una gradualità nel loro aumento, si parte con l’appoggio monopodalico, poi ad occhi chiusi e solo dopo si può passare alle tavolette propriocettive, l’esercizio deve essere adeguato allo stato funzionale del paziente.

Le variabili da cambiare sono tantissime, occhi aperti o chiusi, con le tavolette o sul terreno, braccia allargate o chiuse, ginocchio flesso o esteso, superfici piane o inclinate, esercizi statici o dinamici. E’ possibile introdurre focus attentivi esterni  a secondo del obiettivo ricercato , sia per la capacità di carico, di attenzione  

In una fase un po’ più avanzata il test Y-Balance può essere usato anche come allenamento, oppure si può far tenere al paziente un piede fermo e dare destabilizzazioni con l’altro per avere stimoli sempre più importanti. Si deve lavorare anche con gradi di flessione dorsale sempre maggiori perché in una partita, nei cambi di direzione, nell’atterraggio da un salto, il piede arriva in queste posizioni, ed è questo il momento in cui l’atleta si fa male, lo si deve fare con coscienza e con una progressione corretta, ma se non si lavora con questi angoli e con destabilizzazioni importanti la riabilitazione potrebbe non servire a nulla.

E’ utile inserire gesti sport specifici già nelle prime fasi della riabilitazione per aumentare un ‘aderenza del trattamento al paziente, successivamente in fase avanzata sarà opportuno proporre esercizi con maggiore instabilità che richiedono un buon controllo motorio ad velocità più elevate e con oggetti perturbatori .

Bisogna includere anche il salto sempre secondo la regola della progressione:  da bipodalico a monopodalico , su differenti superfici che possono richiamare la realtà; salti semplici sul posto o multipli e inserendo cambi di direzione .

Per avere un corretto ritorno al livello sportivo pre infortunio, è fondamentale educare non solo il paziente ma anche tutte le persone coinvolte riguardo le tempistiche prognostiche, le aspettative e la corretta progressione, ma soprattutto l’utilizzo di tutori fino ad 1 anno post infortunio.

A cura di :

LUIGI LANFRANCHI , PT, OMPT student

  • Orthopaedic Manipulative Physical Therapist (OMPT) Student
L’esercizio terapeutico nelle lesioni meniscali: evidenze e raccomandazioni

L’esercizio terapeutico nelle lesioni meniscali: evidenze e raccomandazioni

Le lesioni meniscali sono comuni e la chirurgia rappresenta oggi  la più frequente procedura chirurgica.

Recenti evidenze hanno messo in discussione il dogma clinico della chirurgia nel trattamento delle lesioni meniscali nei pazienti di età pari o superiore a 40 anni, con la terapia basata sull’esercizio terapeutico che emerge sempre più come valida alternativa di trattamento.

Quando si trattano le lesioni meniscali, è importante prendere in considerazione l’eziologia della rottura. Le lesioni sono generalmente classificate come traumatiche o degenerative. Le lesioni traumatiche sono più spesso osservato nei giovani sportivi individui attivi e presenti come una lesione su un menisco sano. Le lesioni degenerative sono più comuni nelle persone di mezza età e individui più anziani e considerati un segno precoce di artrosi del ginocchio.

È importante sottolineare che il 60% -70% degli interventi chirurgici al menisco vengono eseguiti in pazienti con oltre 40 anni di età, suggerendo che le lesioni meniscali trattate chirurgicamente sono probabilmente di natura degenerativa.

Ci sono moderate evidenze che suggeriscono che non vi è alcun beneficio nel debridement artroscopico meniscale nelle lesioni degenerative se comparato al trattamento non chirurgico o trattamento sham (trattamento fittizio) in pazienti di mezza età con o senza artrosi lieve. Il trattamento non chirurgico dovrebbe essere il trattamento di prima scelta per questi pazienti. (Khan et al., 2014)

 

Per conto della Società Danese di Terapia Fisica dello Sport (DSSF), è stato valutato sistematicamente il ruolo dei trattamenti non chirurgici nei pazienti con lesioni meniscali traumatiche e degenerative. Sono stati identificati 7 studi che hanno investigato il ruolo dell’esercizio terapeutico per le lesioni meniscali.

Due studi hanno confrontato l’esercizio con la chirurgia, mentre cinque studi hanno studiato l’effetto della chirurgia in aggiunta ad una terapia basata su esercizi. Tutti gli studi hanno coinvolto pazienti di mezza età e anziani con la maggior parte dei pazienti di età compresa tra 40 e 70 anni. Non sono stati identificati studi che confrontavano la terapia fisica con placebo o nessun trattamento per le lesioni meniscali traumatiche.

La terapia con esercizio terapeutico è il trattamento di prima scelta per quei pazienti di oltre 40 anni che presentano una lesione degenerativa.

Il trattamento delle lesioni meniscali degenerative dovrebbe essere non chirurgico, con l’esercizio terapeutico come trattamento principale.

Sulla base di due studi, non abbiamo riscontrato differenze di effetto tra la chirurgia rispetto all’esercizio terapeutico per il dolore riportato dal paziente  e per la funzione. L’esercizio terapeutico ha migliorato la forza muscolare in misura maggiore rispetto alla chirurgia. Inoltre, la sintesi dei risultati di cinque studi clinici non ha mostrato alcun effetto clinicamente rilevante dell’aggiunta della chirurgia all’esercizio terapeutico sul dolore e sulla funzione per i pazienti con lesione degenerativa meniscale.

Nessuna evidenza per il miglior trattamento di pazienti di età pari o inferiore a 40 anni con lesioni meniscali traumatiche.  

Non sono stati identificati studi randomizzati a supporto del miglior trattamento (chirurgico o non chirurgico) per pazienti di età inferiore a 40 anni o con lesione meniscale traumatica. Si ritiene generalmente che i pazienti giovani o con lesioni meniscali traumatiche migliorino di più dopo l’intervento rispetto ai pazienti con lesioni degenerative.

Tuttavia, dati osservazionali recenti su circa 400 pazienti non hanno riscontrato differenze nel miglioramento fino a 1 anno dopo l’intervento chirurgico tra pazienti con lesioni traumatiche o degenerative.

La linea guida clinica nazionale danese recentemente sviluppata per il trattamento delle lesioni meniscali raccomanda che ai pazienti con lesioni traumatiche venga proposto l’esercizio terapeutico od altri trattamenti non chirurgici, a meno che il paziente non abbia sintomi meccanici dolorosi (es. blocco) causati probabilmente da patologia articolare. I sintomi del blocco meccanico meniscale devono essere sia auto-riportati dal paziente che confermati dal medico (sulla base dell’opinione di esperti).

Sfide irrisolte sulle lesioni meniscali

Il divario di evidenze per il trattamento di pazienti giovani e / o dei pazienti con lesioni meniscali traumatiche è una sfida in quanto preclude qualsiasi raccomandazione basata sull’evidenza per questo gruppo di pazienti.

Supponendo che il miglior approccio terapeutico differisca tra i diversi tipi di lesioni meniscali, anche la mancanza di un chiaro consenso sulla definizione di lesioni meniscali traumatiche e degenerative rappresenta una sfida. Ciò è probabilmente ulteriormente complicato dal fatto che un chiaro taglio dicotomico può essere difficile da definire. Ad esempio, alcuni considererebbero un paziente di 40 anni o più con una lesione meniscale causata da un trauma / incidente minore, come l’inginocchiarsi, lo scivolamento e / o la torsione del ginocchio come se avesse subito una lesione traumatica. Altri considererebbero tale lesione come degenerativa, poiché un menisco sano sarebbe resistente alle lesioni dovute a tali incidenti minori.

A cura di:

GIONATA PROSPERI FT, SPT, SM, cert. VRS          

  • Fisioterapista Sportivo  e Scienze Motorie
  • OMPT Student – SUPSI Switzerland
  • Fisioterapista esperto in Terapia Manuale nelle cefalee, emicrania
  • Fisioterapista dei disturbi dell’articolazione Temporo – Mandibolare
  • Fisioterapista dei Disturbi Vestibolari
  • Fisioterapista specializzato nella Spalla dolorosa

RUNNING: 10 DOMANDE E RISPOSTE PER TE!

RUNNING: 10 DOMANDE E RISPOSTE PER TE!

La corsa è, in questo momento, lo sport con il più alto numero praticanti al mondo, che per di più crescono anno dopo anno, seguendo un trend che non sembra volersi fermare.

Viene consigliata per dimagrire, per combattere lo stress, per rinforzare la muscolatura svolgendo un’attività efficace quanto semplice ed economica; e può essere declinata nei modi più svariati: su pista, su strada, sterrato e sterrato con ostacoli.

Spesso capita di farsi delle domande a riguardo, ed ecco qua riassunte le 10 domande più frequenti e le relative risposte.

 

  • Quali sono gli infortuni più frequenti nella corsa ?
  • Ma correre fa male alla schiena ?
  • Correre fa male alle ginocchia ?
  • Post corsa ho dolore, perchè?
  • Ho dolore, posso correre lo stesso?
  • Quali sono le scarpe migliori per correre?
  • Dopo un infortunio posso tornare a correre ?
  • Lo stretching è utile per evitare infortuni?
  • Qualche consiglio per te
  • Perchè è così importante l’allenamento di forza ?

 

  1. Quali sono gli infortuni più frequenti nella corsa?

 

L’infortunio è caratterizzato da un dolore che provoca un interruzione di attività per almeno

  • 7 giorni
  • 3 sessioni di allenamento
  • che richiede un consulto di un fisioterapista o medico

 

Vediamo quali sono i principali infortuni che avvengono in un anno ai corridori (professionisti e amatoriali)

In questo studio di Taunton, 2002 vediamo descritte le principali sedi di infortuni in un anno.

 

Tabella 1

Frequenza e distribuzione per sesso delle 26 lesioni più comuni

 

Lesione Uomini (n /%) Donne (n /%) Totale (n)
* Significativa differenza di sesso con p <0,05.
Sindrome del dolore femorale rotulea * 124/38 207/62 331
Sindrome da attrito della bandelletta ileo-tibiale * 63/38 105/62 168
Fasciopatie plantare * 85/54 73/46 158
Lesioni meniscali * 69/69 31/31 100
Sindrome da stress tibiale 43/43 56/57 99
Tendinite rotulea * 55/57 41/43 96
Tendinite d’Achille * 56/58 40/42 96
Lesioni del gluteo medio * 17/24 53/76 70
Frattura da stress: tibia 27/40 40/60 67
Lesioni spinali 24/51 23/49 47
Lesioni ai muscoli posteriori della coscia 25/54 21/46 46
Metatarsalgia 17/50 17/50 34
Sindrome del compartimento anteriore 13/46 15/54 28
Lesioni gastrocnemio * 19/70 8/30 27
Borsite trocanterica maggiore 9/39 14/61 23
Lesioni agli adduttori * 15/68 7/32 22
Osteoartrosi (ginocchio) * 15/71 6/29 21
Lesioni sacroiliache * 2/10 19/90 21
Frattura da stress: femore 6/32 13/68 19
Lesioni da inversione della caviglia 9/53 8/47 17
Lesioni da ileopsoas 6/37 10/63 16
Condromalacia rotulea 4/31 9/69 13
Tendinite peroneale 9/69 4/31 13
Il neuroma di Morton 5/42 7/58 12
Lesioni da abduttore 7/67 4/33 12
Apofisite calcaneare 7/58 5/42 12
Tibiale posteriore lesione 8/73 3/27 11

 

Come è possibile vedere dalla tabella, il sito di lesione più comune è stato il ginocchio (42,1% degli infortuni totali). Altri siti comuni erano il piede / caviglia (16,9%), parte inferiore della gamba (12,8%), anca / bacino (10,9%),Tendine Achille / polpaccio (6,4%), parte superiore della gamba (5,2%) e parte bassa della schiena (3,4%)

 

2 . Ma correre fa male alla schiena?

 Questa è la fatidica domanda che ultimamente tutti si pongono: “ma correre fa male alla schiena?” “comprime i dischi intervertebrali”, “fa venire ernie” ?

La risposta alle precedenti domande è NO .

Spieghiamo meglio, la corsa non è dannosa alla schiena di per se, ma può andare a peggiorare una situazione preesistente oppure crearne una, se praticata in maniera errata o superficiale.

 

In uno studio del 2017 “running exercise strenght strengthens the intervertebral disc”, viene affermato che l’esercizio di corsa è associato a una migliore composizione del disco intervertebrale (quindi più idratazione e contenuto di proteoglicani).

 

Di per se la corsa non fa male alla schiena e non provoca ernie o quant’altro, ma come qualsiasi altro sport o attività fisica deve essere eseguita bene ed associata a rinforzo muscolare.

 

3 . Ma correre fa male alle ginocchia ?

 Questa è un’altra domanda che la maggior parte dei corridori amatoriali si pone.

“correre mi farà venire l’artrosi ?” Anche in questo caso la risposta è Negativa

NO correre non fa male alle ginocchia, o per lo meno non la corsa di per se.

Vari studi dimostrano che non c’è un aumento del rischio di osteoartrosi sintomatica del ginocchio tra i corridori auto-selezionati rispetto ai non corridori, e in coloro in cui non è presente osteoartrosi, la corsa non è dannosa per le ginocchia.

Quindi se questa paura è ciò che vi frena all’iniziare a correre, state tranquilli!

 

4 . Post corsa ho dolore, perché?

 Generalmente, in assenza di traumi diretti o indiretti, il dolore del corridore viene definito come Aspecific Running Injury. Questo termine racchiude tutti quelli che sono gli infortuni da sovraccarico.

L’infortunio da sovraccarico avviene quando il carico

cumulativo applicato ai tessuti è superiore

alla capacità di carico stesso.

 I dolore non è un indicatore di danno tissutale, ma un meccanismo difensivo. Il nostro sistema produce dolore come risposta a una situazione di pericolo percepito.

I fattori che possono essere percepiti come pericolosi sono molteplici:

  • nocicezione/sensibilizzazione
  • infiammazione/infezione
  • convinzioni/credenze (significato che viene dato al dolore)
  • stress/stanchezza
  • contesto in cui ci si trova.

Il sistema di allarme è molto sensibile: si attiva prima di un danno tessutale e se il carico è percepito come eccessivo, il sistema produce dolore.

Quindi cosa fare? Ridurre il carico o ridurre intensità della corsa.

E se il dolore persiste allora affidarsi a un professionista che possa valutarti e valutare il tuo dolore.

 

 

 

5 . Ho dolore, posso correre lo stesso?

 

Chi non riesce a stare senza corsa, la domanda è questa.

Ho dolore ma posso correre lo stesso?

La risposta alla domanda è DIPENDE.

Dipende dal tipo di dolore.

 

 Se il dolore è un dolore di grado 1: presente solo durante la corsa e che sparisce completamente a fine corsa, allora Sì, si può correre a meno che il dolore non alteri il passo della corsa.

Anche se il dolore è di grado 2; presente fino al massimo il giorno dopo e che sparisce del tutto in massimo 24 H. Anche in questo caso il dolore non deve essere tale da alterare il passo e cosa fondamentale, non ci deve essere dolore notturno. 

Se invece il dolore persiste e continua nei giorni successivi, alterando le attività di vita quotidiana, portando a zoppia e al dover ricorrere a farmaci allora NO, è necessaria una pausa e soprattutto un consulto da uno specialista.

 

 

 

6 . quali sono le scarpe migliori per correre e come si appoggia il piede? 

Come è possibile vedere dall’immagine che rappresenta le prove olimpiche dei 10 km nel 2012 in USA

Non esiste uno stile migliore di altri che vada bene per tutti 

esistono diverse tipologie di scarpe:

scarpe minimaliste, massimaliste scarpe con drop di diversa altezza,  barefoot ecc.

secondo vari studi chi corre in barefoot ha un rischio maggiore di sviluppare tendinopatia e infortuni al tendine d’Achille;

d’altro canto chi corre con scarpe con drop maggiore tende a sviluppare con più facilità: fasciopatie plantari, sindromi da stress tibiali e sindromi femoro rotulee.

Chi invece corre con scarpe minimaliste tende ad avere con più facilità sindromi da stress sul metatarso.

 

 

Quindi quali sono le scarpe migliori per correre? 

Sono stati fatti numerosissimi studi a riguardo ma la conclusione (ad oggi) è che nessuna scarpa è migliore di un’altra a prescindere.

Altri studi sono stati eseguiti anche per cercare di capire se scarpe antipronazione, plantari potessero ridurre il rischio di infortunio, ma la postura del piede in statica non coincide con la postura del piede in dinamica.

La forma del piede Non è correlata alla sua funzione dinamica (trimble 2002, razeghi 2002, paterson 2015)

La pronazione non è correlata all’infortunio ( rayan 2013, nelsen 2014)

 

In un anno il circa 30% dei runner subisce infortuni, e questi infortuni sono uguali in coloro che pronano, supinano, usano scarpe minimaliste, massimaliste o plantari

 

…. quindi

La scarpa è un mezzo non un fine

 

Quindi scegli la scarpa in base a come ti senti meglio, in base a come stai e in base a eventuali problematiche.

 

  1. Dopo un infortunio come posso tornare a correre ?

 

Partendo dal presupposto che ogni infortunio ha i suoi tempi di recupero, se e quando sarai pronto a correre è necessario ripartire con calma e permettere alle strutture di riadattarsi al carico,

quindi come e quando ripartire?

 

Post infortunio si può tornare a correre solo se:

  • nessun segno di infiammazione
  • articolarità ed estensibilità massime
  • stabilità indolore mono-podalica
  • camminare senza dolore per 30 minuti

 

se tutto è presente tutto questo allora è possibile tornare a correre in maniera graduale:

iniziare mescolando camminata a corsa permette di riportare i tuoi tessuti di riadattarsi al carico.

 

Seduta Corsa Cammino
1 1 minuto 4 minuti X6
2 2minuti 3minuti X6
3 3minuti 2 minuti X6
4 4minuti 1 minuto X6
5 20 minuti di corsa
6 25 minuti di corsa
7 30 minuti di corsa

 

Comincia ogni seduta di corsa con 5 minuti di cammino, poi fai sei blocchi consecutivi di corsa/cammino come descritto in tabella. Con una seduta a giorni alterni.

 

È consentito sentire dolore purché rimanga sotto un valore di 4/10 e che sparisca del tutto entro 48H.

8.Ma stretching è utile per evitare infortuni?

No, vari studi sono stati fatti a riguardo e la conclusione è sempre la solita, lo stretching statico non previene infortuni, non aumenta la lunghezza muscolare, bensì solo la tolleranza allo sforzo (konrad 2014)

 

  1. Qualche consiglio per te
  • Lavora di forza e resistenza in maniera simultanea, ciò permette il miglioramento della velocità ed una migliore economia della corsa, l’allenamento della forza riduce gli infortuni da sovraccarico del 50%
  • lavora su coordinazione motoria, mobilità, controllo e stabilità di tutto l’arto inferiore (anca, ginocchio, caviglia, alluce)
  • lavora di potenza e reattività con esercizi di balzi, pliometrici o salti.
  • Se hai avuto un infortunio dai il tempo al tuo corpo di riadattarsi ai carichi, non pretendere di fare gli stessi km, solita velocità di prima, ci arriverai piano piano

 

  1. perché il lavoro di forza è tanto importante ?

 

Per questo vi rimando all’articolo del collega che spiega il perché un runner dovrebbe sempre fare allenamento di forza (https://fisioterapia-massa.it/la-forza-nel-running/)

A cura di :

GIULIA SANGUINETTI, PT, OMPT student

  • Orthopaedic Manipulative Physical Therapist (OMPT) Student
  • Fisioterapista dei disturbi vascuolo-linfatici
  • Fisioterapista esperta in fisio-pilates
Tendineopatia achillea

Tendineopatia achillea

TUTTI LA CHIAMANO TENDINITE D’ACHILLE .

Vediamo perchè in realtà non si chiama così e soprattutto che cosa è!

 

Il tendine d’Achille è una spessa banda di tessuto connettivo fibroso, estremamente flessibile ed elastica, che riunisce le porzioni terminali dei muscoli del polpaccio gastrocnemi e soleo, e si estende fino a una prominenza ossea del calcagno, conosciuta come e tuberosità calcaneare, dove stabilisce una robusta interazione.

Ha un ruolo fondamentale per quanto concerne la meccanica della locomozione dell’essere umano; collegando gastrocnemio e soleo al calcagno, infatti, permette a questi muscoli l’esecuzione di movimenti di planta-flessione del piede, per questo è l’attore principale durante la fase di spinta del passo, in cui il calcagno si solleva da terra.

In realtà, è attivo anche nella altre fasi del passo con un ruolo di modulatore dell’azione degli altri muscoli antagonisti.

 

Il tendine d’achille è il più largo e forte tendine del corpo umano;

supporta carichi che possono variare circa da 2000 a 7000 N.

( per chi non conoscesse la fisica , si traduce in 200 e 700 kg )

inoltre, viene stimolato continuamente durante la vita quotidiana; ad esempio:

durante il cammino, corsa, nei salti oltre che ovviamente in attività sportiva.

 

Ma cosa si intende per Tendinopatia Achillea?

Sicuramente non è un’infiammazione!

Il termine tendinite infatti è un termine impropriamente usato in quanto non esiste nessuna infiammazione al tendine.

Si intende perciò una condizione clinica dolorosa da Overuse con insorgenza graduale del dolore (SueckiD, Bretchter J, 2010)  rigidità mattutina e dolore alla palpazione 

“Dolorabilità, rigidità e impotenza funzionale” del tendine d’Achille sono di facile riscontro nella popolazione generale.

Nel 2011 “de Jonge et al” attraverso uno studio di coorte basato su 57.725 pazienti, evidenzia un tasso d’incidenza del 2,35%  in persone con una fascia d’età compresa tra i 21 e i 60 anni.

E solo il 35% di essi è però in relazione con attività sportive. 

Nella popolazione sportiva invece è possibile riscontrare problematiche di tendinopatia achillea sia in atleti amatoriali che professionisti di diverse discipline.

Essa rappresenta il 2,5% di tutti gli infortuni dei calciatori che hanno partecipato alla UEFA Champions League dal 2001 al 2012 con un tasso di recidiva del 27% .

È abbastanza diffusa anche tra i podisti con un tasso di incidenza tra il 9.1% e il 10.9% con un picco del 18,5% negli ultramaratoneti 

Quali sono i segni della Tendinopatia Achillea ?

  • Dolore localizzato ( massimo 2 dita) sul tendine achilleo
  • Il Dolore è in relazione al carico ( più cammino, salto o corro e più da dolore )
  • Peggio il giorno dopo alti carichi
  • Possibile Rigidità Achilleo 

 

 I fattori di rischio di svuluppo di Tendinopatia Achillea possono essere molteplici;

secondo O’Neill et al, 2016 e Martin et al, 2018, questi sono :

  • Riduzione della potenza/forza muscolare generica e in particolare muscoli gastrocnemio soleo;
  • Ridotta mobilità della caviglia, in particolare riduzione della dorsiflessione;
  • Alterato Allineamento del Piede, ad esempio pronazione;
  • Precedenti Tendinopatie dell’arto inferiore e/o traumi recenti;
  • Uso di corticosteroidi, e soprattutto inniezioni di corticosteroidi ( come conferma uno studio retrospectivo del 2016 – the clinical effect of tendon repair for tendon spontaneous rupture after corticosteroid injection;
  • Cambiamento del Carico ( ad esempio riprendere, dopo un periodo di pausa, attività sportiva alla solita intensità precedente);
  • Errori di allenamento ;
  • Calzature inadatte;
  • Superflici di allenamento inadatte ( ad esempio : troppo soffici o dure);
  • Altre: diabete mellito, ipercolesterolemia, obesità, stress, donne post-menopausa, artrite reumatoide ecc.

 

Chi ha avuto almeno una volta nella vita una tendinopatia Achillea, sa quanto questa sia insidiosa.

Ha un notevole impatto sulla vita quotidiana, in quanto interessa le normali attività giornalierre , come camminare, scendere, salire le scale, ecc. , l’attività sportiva, come running o tutti gli sport che richiedono corsa e salti. 

È una patologia che richiede tempo a guarire e velocemente può aggravarsi.

Solo il 65% guarisce e permane senza sintomi dopo 5 anni (Sibernagel et al 2010) ;

15% ha una recidiva dei sintomi

20% continua con sintomi e deficit di forza;

Una corretta diagnosi clinica può essere effettuata attraverso anamnesi ed esame obbiettivo.

Ulteriori esami strumentali come ecografia o Risonanza magnetica, possono solo confermare l’ipotesi che ci siamo fatti.

Una volta diagnosticato il problema il trattamento che ne segue è multimodale

  • esercizio terapeutico
  • modulazione dei carichi di lavoro ( soprattutto per gli sportivi)

Ricordiamoci che livello del tendine è tanto dannoso sia il sovraccarico quanto il sottocarico

  • terapie manuali (per migliorare la mobilità della caviglia e ridurre tensioni muscolari a livello di gastrocnemio e soleo, flessori delle dita , tibiale anteriore e posteriore)
  • terapie fisiche ( onda d’urto ): le onde d’urto hanno dimostrato essere efficaci nel ridurre il dolore nel medio termine quando associate a riabilitazione attiva ( esercizi), grazie al loro effetto biostimolante locale.
  • Chirurgia : Il trattamento chirurgico è consigliato per quelle poche persone in cui il trattamento conservativo fallisce e il dolore permane per più di 3/9 mesi . Rappresentano per fortuna una piccola percentuale.

 

 Ma quindi quali esercizi fare ?

Più studi confermano che un training di sei settimane siano in grado di portare notevoli miglioramenti alla patologia in termini di dolore e funzionalità, sempre se eseguiti correttamente. A livello visivo, un corretto allenamento ha dimostrato essere efficace anche nella riduzione della tumefazione tendinea, ed all’esame ecografico ed alla risonanza magnetica sono stati rilevati netti miglioramenti a livello strutturali.

 

Lo scopo principale di questi esercizi è riportare il tendine a sopportare carichi adeguati e ridurre il dolore :

  • esericizi isometrici ( hanno lo scopo di ridurre il dolore ): squat su pedana inclinata, tenuta isometrica hell raise da seduto, tenuta isometrica su leg press ecc.
  • esercizi isotonici concentrici ed eccentrici ( scopo: migliorare forza, capacità di carico): hell raise da seduto, hell, raise su leg press, squat su pedana inclinata ecc.

 

 

 

L’esercizio eccentrico modifica  lo stato patologico del tendine sia a breve che lungo termine.

Va infatti ad influire sulla produzione del collagene di tipo 1 ed, in assenza di ulteriori eventi lesivi , può aumentare il volume tendineo ed incrementarne la forza.

Inoltre, la ripetizioni di continui carichi in allungamento aumenta la capacità di carico del tendine stesso rendendolo più funzionale e meno

dolorante sotto sforzo.

  • Esercizi pliometrici : aumentare velocità e aggiungere rimbalzi veloci, corsetta sul posto, salti bi-podalici e poi monopodalici, skipping ecc.
  • una volta tollerato il carico si passa poi a lavorare su eventuali performance sportive 

Una volta terminato il percorso riabilitativo è necessario mantenere il risultato, continuando con il lavoro di rinforzo e gradualmente ritornare all’attività sportiva.

È importante capire ( soprattutto per gli sportivi) che il carico di lavoro dovrà aumentare gradualmente e non pretendere di riuscire a correre, saltare ecc, immediatamente come prima dell’infortunio.

Questo avverrà solo allenando il tendine a carichi graduali fino carico precedente. 

Parliamo di FASCITE PLANTARE: cos’è e come si “combatte”

Parliamo di FASCITE PLANTARE: cos’è e come si “combatte”

Con il termine Fascite Plantare s’intende tutta una condizione dolorosa non traumatica che coinvolge la fascia plantare; negli USA colpisce il 10% delle persone almeno una volta nella vita e di questo 10% l’80% sono soggetti che praticano attività sportiva con un’età compresa tra i 25 e 65 anni.

Tendenzialmente questa condizione si presenta a un solo arto ma circa un terzo dei pazienti con Fascite plantare avverte dolore bilaterale.

 

Breve Cenni di Anatomia e Funzione della Fascia

La fascia plantare (FP) occupa il piano superficiale della pianta del piede e si divide in tre parti: intermedia, laterale e mediale. La parte intermedia è triangolare ed il suo apice si inserisce nelle tuberosità del calcagno mentre la base corrisponde alle articolazioni metatarso-falangee. Le parti laterale e mediale della fascia continuano con la parte intermedia e si portano in profondità raggiungendo il 5° osso metatarsale, lo scafoide, il 1° cuneiforme e il 1° metatarsale. La fascia profonda è distesa sulle ossa metatarsali e sui muscoli interossei plantari.

Questa spessa struttura ha la FUNZIONE di stabilizzare e sorreggere l’arco plantare longitudinalmente, inoltre ricopre un importante ruolo biomeccanico durante il cammino in quanto alcune fibre della FP sono connesse al tendine d’Achille e quando le articolazioni metatarso-falangee vengono estese si crea una tensione sulla fascia che determina un avvicinamento del calcagno alle teste metatarsali con conseguente aumento dell’arco longitudinale rendendo più efficiente la propulsione in avanti.

La FP ha la capacità di immagazzinare energia elastica grazie all’allungamento passivo che subisce durante la fase di appoggio/oscillazione.

 

 

Quadro clinico FP

Generalmente l’esordio di questa condizione è insidioso, il paziente avverte dolore alla base del calcagno, dove la fascia plantare (FP) s’inserisce sul tubercolo mediale del calcagno; a volte può essere avvertito sul mesopiede o sotto le teste metatarsali. Tendenzialmente il dolore non è presente a riposo, è più forte al mattino ai primi appoggi del piede e tende a ridursi gradualmente durante l’arco della giornata manifestando il cosiddetto “effetto riscaldamento” tipico delle tendinopatie. In fasi croniche il dolore sarà presente anche a riposo e tenderà a non modificarsi con le attività.

Quali sono i fattori di rischio?

Si possono distinguere due tipologie di fattori: intrinseci ed estrinseci; i primi includono un indice di massa elevato presente in più del 70% dei pazienti con FP, l’eccessiva pronazione del piede presente nell’86% dei pazienti con FP, l’età che contribuisce ad assottigliare il tessuto adiposo subcalcaneare ed aumenta la possibilità di formazioni di spine calcaneari (presenti nel 50% dei pazienti con FP), il piede piatto o troppo arcuato.

Tra i fattori estrinseci si evidenziano l’uso di calzature inadeguate con scarso sostegno all’arco longitudinale, attività lavorative che prevedono molte ore in piedi e bruschi cambi/aumenti dell’attività fisica.

Occorre informare che l’eziologia di questa condizione clinica non è chiara ma multifattoriale, determina un’alterazione della funzionalità e della capacità lavorativa con un impatto negativo sulla qualità della vita.

Qual è il ruolo del FISIOTERAPISTA in questa patologia e cosa può fare per aiutare il paziente?

Questa è una condizione clinica dove il paziente generalmente si rivolge al fisioterapista in accesso diretto, indi per cui il Fisioterapista deve, in base alla raccolta anamnestica e all’esame clinico accurato (basato prevalentemente sulla palpazione della fascia plantare a livello dei tubercoli del calcagno), identificare la presenza di una problematica alla fascia plantare al fine di ottimizzare il trattamento migliorando quindi la prognosi del paziente ed evitando trattamenti inutili.

In letteratura sono presenti numerosi studi che propongono diverse tecniche di trattamento e ognuno di questi presenta dei punti forti ed altri di criticità;   la revisione Cochrane di Crawford e Thomson del 2003 ha considerato una serie di interventi (tra cui esercizi, ortesi plantari, infiltrazioni di corticosteroidi, onde d’urto, laser, ultrasuoni) per la FP, ma non è stata in grado di mettere in comune i dati disponibili, ha trovato evidenza inconcludente sull’efficacia dei trattamenti e, nel complesso, ha trovato evidenza limitata su cui basare la pratica clinica. Essendo questa condizione clinica multifattoriale probabilmente anche il trattamento dovrà essere integrato a più strutture.

Il trattamento riabilitativo: in cosa consiste?

Come tutti i trattamenti, gli obiettivi sono incentrati sulla risoluzione della sintomatologia clinica e sul recupero della funzione.

  • La prima fase del trattamento è mirata alla riduzione del dolore con esercizi di allungamento che hanno come focus la fascia plantare e i flessori plantari. In associazione allo stretching è possibile far eseguire al paziente esercizi di rinforzo chiamati isometrici, utili sia per neuromodulare il dolore sia per iniziare a stimolare nuovamente la matrice extracellulare tendinea (che generalmente viene inibita da dolore) con esercizi di carico graduale. Nella pianificazione dell’esercizio terapeutico sarà opportuno monitorare costantemente il livello di dolore del paziente con scale di valutazione del dolore che ci permettono di capire qual è il carico ottimale con il quale stimolare la struttura tendinea del nostro paziente senza irritarla e senza incrementare il dolore. Sempre a breve termine per migliorare la condizione dolorosa la letteratura suggerisce l’utilizzo di ortesi plantari ed allungamento muscolare sia della fascia che dei flessori plantari.
  • Man mano che il dolore si riduce, vengono incrementati gli esercizi di carico sulla fascia plantare con l’inserimento di esercizi isotonici concentrici ed eccentrici fino ad arrivare al ripristino di tutte le normali attività di vita quotidiana/sportiva. Anche in questa seconda fase sarà fondamentale il controllo del dolore sia durante l’esecuzione degli esercizi sia nell’immediato post esercizio;
  • Fondamentale nella gestione di questo disturbo sarà istruire il paziente con pochi esercizi da eseguire in autonomia a casa.
  • Parlando di calzature il fisioterapista, in interdisciplinarietà con il podologo, può suggerire l’utilizzo di scarpe comode che sostengano correttamente l’arco plantare, al fine di prevenire la re-insorgenza della condizione clinica evitando cosi processi di cronicizzazione.

Devo prendere farmaci?

La letteratura più recente ci informa che il solo utilizzo dei FANS non ha alcuna efficacia per la risoluzione della sintomatologia, anche nel breve termine.

 

 

Mi hanno proposto le infiltrazioni, che faccio?

Le infiltrazioni di corticosteroidi da soli o in combinazione con l’esercizio terapeutico possono risultare efficaci per ridurre il dolore e migliorare la funzionalità a breve termine, anche se l’effetto complessivo sulla FP è modesto e possono verificarsi effetti avversi, come l’aumento postoperatorio indotto di dolore, l’atrofia del cuscinetto adiposo, la lesione dei nervi e la rottura della fascia plantare, che richiedono un’attenta considerazione.