Il GOMITO del Tennista…

Il GOMITO del Tennista…

…anzi no! Chiamiamola Tendinopatia Laterale di Gomito

Sempre più frequentemente le persone si rivolgono a figure medico/sanitarie (medici/fisioterapisti) per un quadro clinico doloroso alla porzione laterale di gomito che è diagnosticato con il nome di “gomito del tennista”.

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sia in termini di nomenclatura sia in termini d’inquadramento clinico; in letteratura vi è molta confusione al riguardo: chi definisce questa condizione epicondilite laterale, chi tendinopatia di gomito, chi gomito del tennista e cosi via… iniziamo subito dicendo che questo quadro doloroso è infrequente nei tennisti (soprattutto se si parla di tennisti d’elite, dove la cura del dettaglio inteso come gesto tecnico e materiali è massima) ma colpisce prevalentemente la popolazione lavoratrice in particolar modo chi usa oggetti superiori ad un kg per più di 2 ore al giorno e chi compie movimenti di precisone con le mani (tipo elettricisti).

 

Andiamo a vedere qualche dato epidemiologico:

  • il 40% della popolazione ha avuto almeno un episodio nella vita di dolore laterale di gomito quindi 4 persone su 10
  • fascia d’età : 35-50 anni
  • 1-10% della popolazione generale
  • 4-7 pazienti su 1000 si rivolgono allo specialista
  • il 17 % popolazione di lavoratori ( macellai, idraulici, elettricisti)
  • arto dominante maggiormente colpito.
  • maggior severità e cronicità nel sesso femminile
  • non ci sono grandi differenze tra sesso maschile e femminile

Quali sono le caratteristiche cliniche? 

Tendenzialmente il soggetto si presenta con un dolore nella porzione laterale del gomito che può proiettarsi sulla superficie dorsale dell’avambraccio, questo dolore può limitare in maniera significativa le attività lavorative e ludico/sportive; spesso si associa anche ad un deficit della forza di presa. Spesso il dolore si presenta in seguito a intensi sforzi/sovraccarichi, il dolore si manifesta inizialmente a inizio attività per poi scomparire gradualmente durante lo sforzo fisico (effetto warm up), successivamente il dolore è presente ad inizio attività e non si modifica con il riscaldamento per poi scomparire a riposo; infine il dolore è presente anche a riposo.

Ma perché un gomito dovrebbe far male? E perché questo dolore tende a persistere?

Fino a poco tempo fa il clinico si basava su un Modello Pato-meccanico per la quale il dolore tendineo era associato ad una patologia tissutale locale e la severità del dolore era intimamente dipendente al grado di alterazione strutturale evidenziato con l’imaging.  Negli ultimi anni la ricerca ha reso debole tale modello mostrando che:

  1. il quadro di disorganizzazione in imaging non è correlato al grado di intensità del dolore
  2. il 59% dei tendini asintomatici mostrano anomalie strutturali
  3. i tendini possono essere dolorosi anche se appaiono normali in imaging

Per tutto questo si è passati verso Modello integrativo che considera sia la struttura sia l’aspetto Bio Psico Sociale, quindi più specificatamente va a incorporare sia problematiche locali del tendine che problematiche del controllo motorio (deficit propriocettivi, di endurance, alterazioni posturali, alterazioni di attivazione muscolare) ed infine modifiche del sistema di controllo del dolore.

Come s’inquadra un paziente con dolore laterale di gomito?

In primis sarà importante una corretta valutazione del paziente, valutazione in toto che non riguarda solo il gomito ma tutto il quadrante superiore (spesso problematiche di spalla possono riferire al gomito, problematiche biomeccaniche di spalla/polso possono determinare modifiche di carico/forze torcenti a livello del gomito); un altro aspetto fondamentale del processo valutativo sarà quello di escludere patologie gravi (red flags). La valutazione prevede:

 

  1. raccolta anamnestica: attività lavorativa/sportiva, tipologia del dolore (profondo, superficiale, sordo, acuto, localizzato diffuso etc..), sede del dolore.
  2. esame fisico: un articolo del 2014 sulla ricerca dell’accuratezza diagnostica dei test di provocazione nel dolore laterale di gomito ha evidenziato che il test di Cozen, il test di Maudsley ed il Pain-Free Grip Test sono i test migliori per escludere una problematica tendinea.

 

Una volta inquadrato il problema, come lo risolvo? 

È importante sapere che il trattamento non chirurgico “ideale” non esiste! Occorre impostare un trattamento multimodale che attraverso l’esercizio terapeutico e la terapia manuale garantisce il ripristino della funzione e dell’attività della struttura. Il trattamento multimodale prevede esercizi di gestione del carico abbinato a manipolazioni cervicali (HVLA), mobilizzazioni del gomito (MWM), tecniche di neurodinamica e tecniche fasciali. 

In cosa consiste l’ESERCIZIO TERAPEUTICO? 

Cosa fondamentale è ridurre il più possibile il riposo, favorendo esercizi a basso carico che vadano gradualmente ad aumentare la forza statica (esercizi isometrici) e dinamica (training di rinforzo concentrico/eccentrico), esercizi di controllo motorio e forza dell’arto superiore (in particolar modo trapezio medio/inferiore ed extrarotatori di spalla), fino ad arrivare ai task funzionali che prevedono attività di gesto sport specifico e/o situazioni di vita quotidiana. Come fare tutto questo, quindi che tipo di esercizio proporre, con che frequenza, a che intensità etc nessuno può dircelo, è tutto in mano all’esperienza del clinico e al paziente che troverà di fronte. Occorre lavorare sempre ad un carico ottimale, ma il carico ottimale non è preimpostato, tendenzialmente in una scala di dolore numerica (NPRS) che va da 0 nessun dolore a 10 massimo dolore mai provato, il carico ottimale s’instaura nell’esercizio che determina un NPRS 4/5. L’esercizio è importante perché 

  • stimola il rimodellamento tendineo
  • produce risposte muscolari adattative
  • produce effetto analgesico locale  

ATTENZIONE però al FINTO “gomito del tennista”!!! 

Recenti studi ci dicono che molti pazienti con dolore laterale di gomito, resistenti alle canoniche terapie conservative, non hanno una problematica tendinea bensì intra-articolare (sinoviti, condropatie capitellari, ballottamento radiale) e quindi una micro-instabilità di gomito

Sarà quindi importante una corretta diagnosi differenziale, perché il paziente si reca dal fisioterapista per un dolore al gomito in accesso diretto ed è compito del clinico identificare se realmente è una condizione tendinea o articolare. 

Le problematiche intra-articolari sono molto subdole, generalmente il paziente si reca in visita con una serie di sintomi clinici e segni secondari che non sono l’espressione diretta di un quadro instabile ma sono l’espressione indiretta di una sofferenza tissutale, perché sono i tessuti molli (tendini-muscoli) le prime strutture a vicariare un deficit articolare e quindi è possibile che il paziente riferisca sintomi dalle caratteristiche cliniche di una tendinopatia ma non sia realmente così. 

Com’è possibile fare diagnosi differenziale? 

Esistono due test recenti, il SALT (supination and anterolateral pain test) ed il PEPPER test (posterior elbow pain by palpation while extending radiocapitellar joint) che vanno ad identificare problematiche sinovitiche (il SALT test) e condropatie capitellari (PEPPER test); inoltre l’imaging può dare una mano nella corretta identificazione del problema (in particolar modo Risonanza Magnetica ed esame artroscopico).

Dr. Ceccarelli Claudio

  • Fisioterapista, Orthopaedic Manipulative Physical Therapist (OMPT)
  • Docente a contratto Università di Pisa, Master in Fisioterapia Sportiva
  • Assistente alla Didattica presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, Master in Terapia Manuale Ortopedica Applicata alla Fisioterapia
Rizoartrosi

Rizoartrosi

RIZOARTROSI: COS’E  E COME SI IDENTIFICA

La rizoartrosi è una patologia artrosica che viene a interessare l’articolazione trapezio-metacarpale (TM), articolazione alla base del pollice; A causa del loro ruolo centrale nel reggere il carico generato dalle funzioni del pollice, le cartilagini che rivestono il trapezio e il primo metacarpo sono soggette a un’alterazione precoce rispetto ad altre articolazioni: la loro degenerazione può̀ essere quindi causa di  dolore e di gravi problemi funzionali, soprattutto nell’esecuzione delle pinze tra pollice e indice. La diagnosi di questa patologia e la sua stadiazione richiedono, oltre all’esame clinico, un esame radiografico mirato all’articolazione trapezio-metacarpale. Colpisce prevalentemente il sesso femminile di età compresa tra i 50 e i 70 anni, ha un’insorgenza insidiosa e progressiva che può durare da alcuni mesi a svariati anni.

COME SI interviene?

Nelle forme iniziali, il dolore e l’instabilità articolare possono essere controllati con tecniche conservative, seguendo un protocollo che prevede l’uso di un tutore utile a mantenere il pollice in posizione corretta, da indossare durante la notte e, nelle fasi acute, per qualche ora durante il giorno, insieme a trattamenti riabilitativi. Le tipiche tipologie di terapie fisioterapiche adottate per la gestione di questi pazienti includono la terapia manuale e l’esercizio terapeutico. Le tecniche di terapia manuale utilizzate comprendono sia tecniche articolari passive e sia tecniche di neurodinamica, ovvero tecniche di mobilizzazione neurale. Studi recenti hanno dimostrato che 4 – 6 sedute fisioterapiche di mobilizzazioni eseguite con una frequenza di 2 volte a settimane sono in grado di ridurre il dolore  (specie alla pressione) e la funzionalità, rispetto ad altri tipi di trattamento. Nel caso di una condizione dolorosa cronica, la mobilizzazione del nervo è in grado di produrre una significativa ipoalgesia meccanica ed un aumento della forza di presa nei pazienti con rizoartrosi, ed è quindi  considerato un valido strumento terapeutico nei pazienti con rizoartrosi in cui vi è anche una condizione di sensibilizzazione centrale e periferica. Per quanto riguarda le tecniche di terapia manuale ortopediche queste sono ampiamente utilizzate nella gestione clinica  dei pazienti che presentano una rizoartrosi. Tecniche di mobilizzazioni articolari, trazioni e tecniche di glide sono spesso usati per allungare la capsula articolare e per recuperare i movimenti accessori, al fine di ridurre il dolore e migliorare l’escursione articolare. Gli esercizi hanno lo scopo di migliorare l’escursione articolare libera dal dolore, incrementare la forza, mantenere la stabilità articolare ed evitare deformazioni del pollice. Un ulteriore studio ha dimostrato come un trattamento multimodale comprensivo di  tecniche di mobilizzazione articolare, tecniche di neuro dinamiche ed esercizi terapeutici, della durata di 12 sedute con una frequenza di 3 sedute a settimana, possa produrre risultati importanti in termini di riduzione del dolore e ripristino della funzionalità.

Questo approccio prevedeva:

  • Tecniche di terapia manuale, ovvero distrazione e glide postero anteriore (3 minuti di trattamento ripetuto per 3 volte);
  • Tecniche di neuro dinamica sul nervo mediano e sul nervo radiale in slider: è una manovra che ha lo scopo di produrre un movimento di scivolamento della struttura neurale in relazione ai tessuti anatomici adiacenti. Durata della tecnica: due serie da 5 minuti ognuna, con pausa di 1 minuto tra ogni serie.

Fondamentale sarà andare a modificare le attività di vita quotidiana del paziente, specialmente quelle di presa proponendo l’utilizzo di ausili che facilitino le varie attività e insegnando nuove modalità per svolgere le varie funzioni al fine di ridurre il carico doloroso a livello articolare, trasferire lo sforzo alle articolazioni più gradi e forti, aumentando la superficie di contatto con gli oggetti.

 

 

 

 

 

 

Per diminuire il dolore nelle fasi acute della malattia possono essere sporadicamente utilizzati farmaci anti-infiammatori cortisonici o non cortisonici. Se il trattamento conservativo non è sufficiente a controllare i sintomi e l’articolazione va incontro a gravi fenomeni degenerativi, con progressiva distruzione articolare, la chirurgia può̀ offrire diverse soluzioni. In linea generale lo scopo dell’intervento chirurgico tende a eliminare o ridurre il dolore e a stabilizzare l’articolazione distrutta, restituendo al pollice una migliore funzione rispetto alle condizioni preoperatorie.

Dopo il trattamento chirurgico sono necessari un periodo di immobilizzazione di 3/4 settimane e, in seguito, una terapia riabilitativa la cui durata richiede solitamente due mesi. Per ottenere buoni risultati è indispensabile che la riabilitazione venga eseguita da un fisioterapista specializzato in riabilitazione della mano.

 

CLAUDIO CECCARELLI, PT – OMPT

  • Fisioterapista
  • Orthopaedic Manipulative Physical Therapist (OMPT)
  • Assistente alla Didattica Università di Roma “Tor Vergata”, Master in Terapia Manuale Applicata alla Fisioterapia
  • Specializzato nella Riabilitazione dei Disordini Muscoloscheletrici di Spalla, Gomito e Mano
  • Membro del gruppo di ricerca scientifica G.E.R.I.C.O (Generic Elbow Rehabilitation and Integrated Orthopaedic Collaboration)

Ortesi (splint) su misura per patologie della mano

ORTESI (SPLINT) SU MISURA PER PATOLOGIE DELLA MANO

I tutori per le patologie della mano sono strumenti terapeutici indispensabili per la presa in carico riabilitativa delle disfunzioni che coinvolgono il distretto mano, polso, gomito. Realizzati in materiale termoplastico, modellabile a temperatura dai 60-70°, vengono confezionati dal Fisioterapista specializzato, in base alla patologia diagnosticata dal chirurgo della mano la cui collaborazione è indispensabile o sulla base della valutazione funzionale di propria competenza. La realizzazione richiede conoscenze (anatomia, fisiologia, protocolli riabilitativi) ed abilità specifiche (tecniche e materiali).

CARATTERISTICHE PECULIARI E BENEFICI: alto livello di traspirabilità della pelle e ottima tollerabilità grazie alla leggerezza dei materiali, garantendo allo stesso tempo adeguata protezione.

Se previsto, può essere rimovibile e lavabile. Queste caratteristiche aumentano la compliance del paziente migliorando la sua autonomia e limitando il rischio di patologie secondarie ad una immobilizzazione eccessiva delle articolazioni non coinvolte dalla lesione (rigidità, indebolimento muscolare, perdita di sensibilità, algodistrofia, compressioni).

La plasticità del materiale oltre a consentire la realizzazione su misura ed in tempo reale dell’ortesi ne permette inoltre il progressivo adattamento in base alla progressione del recupero e degli scopi del percorso riabilitativo.

 

SCOPI PRINCIPALI: sia in ambito conservativo che post chirurgico.

  • proteggere e mettere a riposo una o più articolazioni in fase di infiammazione acuta
  • immobilizzare tessuti lesionati in fase di guarigione (fratture, distorsioni, sub-lussazioni) limitando le possibili complicanze dei gessi
  • proteggere le suture di tendini e/o nervi in ambito post chirurgico
  • correggere e prevenire deformità articolari nelle patologie degenerative (artrosi, artriti)
  • mantenere la funzionalità più a lungo possibile e preservare al meglio le strutture facilitando l’ergonomia di movimento ed il corretto gesto funzionale
  • impedire posizioni o movimenti indesiderati
  • favorire una limitata funzione o sostituire la perdita della forza muscolare migliorando le attività della vita quotidiana, in associazione o in alternativa a bendaggi funzionali
  • mantenere e/o aumentare movimenti attivi e passivi vincendo rigidità articolari o allungando tessuti cicatriziali

PATOLOGIE CHE NE RICHIEDONO L’UTILIZZO:

i tutori, siano essi funzionali, di riposo, statici o dinamici, sono un determinante supporto nel trattamento sia conservativo che post-chirurgico di patologie della mano quali:  fratture, tendiniti e dita a scatto, morbo di Dupuytren, Sindrome di De Quervain, sindrome del Tunnel Carpale, epicondiliti, esiti di cicatrici, instabilità articolari, rizoartrosi, lesioni legamentose/tendinee/nervose, compressioni nervose, interventi di artrolisi e tenolisi, distorsioni, retrazioni capsulo-legamentose post traumatiche o da immobilizzazione prolungata, retrazioni muscolo-tendinee e deficit muscolari, sindromi da overuse o posture scorrette, deformità (boutonnière, dito a martello, collo di cigno), artrite reumatoide.
TIPOLOGIE DI TUTORI. I tutori si inseriscono in tre macro classi in base agli scopi per i quali vengono realizzati, con conseguenti diversità ed integrazioni di materiali e supporti.

Tutori statici. Servono mantenere il corretto posizionamento e il riposo di una o più articolazioni e tendini. Hanno una struttura fissa senza accessori e danno quindi sostegno e immobilizzazione. Possono essere fissi (come nel caso di immobilizzazione post frattura dove possono sostituire il ben conosciuto gesso) o rimovibili grazie a chiusure con velcri e rivetti che permettano al paziente di indossarlo e toglierlo a seconda dell’indicazione terapeutica (è il caso, ad esempio, di uno splint notturno per trattamento conservativo di tenosinoviti legate a dito a scatto o sindrome da tunnel carpale). Altri esempi possono riguardare instabilità di polso, lesioni tendinee, rizoartrosi, di tenosinovite di De Quervain, di morbo di Dupuytren. I tutori statici possono definirsi progressivi quando, sfruttando la capacità termoplastica dei materiali, vengono modellati in adattamento al miglioramento di condizione ed al percorso terapeutico, come nel caso di retrazioni articolari o capsulo-legamentose.

Tutori dinamici. Si usano con lo scopo di contrastare rigidità articolari o di allungare tessuti cicatriziali che rendono incompleto il movimento a livello di una o più articolazioni. Oltre alla struttura di base presentano appendici di trazione dotati di pulegge, fili od elastici ed esercitano una forza attiva su una o più articolazioni e sui tessuti molli. Vengono indossati secondo una posologia concordata ed alternati ad esercizi di automobilizzazione insegnati dal fisioterapista in base al percorso riabilitativo. Alcuni esempi: retrazioni, deformità, post chirurgia di tenolisi o tenoartrolisi.

 

Tutori funzionali. Sono impiegati durante l’attività di vita quotidiana o il gesto sportivo, servono a facilitare o supportare una funzione che ancora non è stata completamente recuperata o non può essere più ripristinata. Talvolta può sostituire un bendaggio funzionale con grande vantaggio in termini di praticità grazie alla possibilità di essere uno strumento rimovibile, riutilizzabile per lungo periodo, lavabile, nonché su misura. Può essere utilizzato in caso rientro in attività post infortunio, in sindromi da overuse, in paralisi o lesioni nervose.

 

 

FINALITA’ DELE ORTESI. I tutori su misura possono avere diverse finalità e conseguentemente essere costituiti da materiali e finiture differenti, talvolta integrati tra loro. Possono essere tutori funzionali in morbido neoprene o rigidi in materiale termoplastico, comunque conformato al paziente.

  • di immobilizzazione: permette il corretto posizionamento di segmenti articolari o la messa a riposo di una o più articolazioni e tendini. È indicato ad esempio in caso di instabilità di polso, di lesioni tendinee, di rizoartrosi, di tenosinovite di De Quervain o dito a scatto, di sindrome da Tunnel Carpale, di morbo di Dupuytren;
  • di correzione: consente di limitare la progressione delle deformità e la rigidità o l’atteggiamento scorretto delle articolazioni delle dita e della mano, come nel caso di rizartrosi o artrosi delle dita lunghe;
  • di sostegno o sostituzione di una funzione: supportano e facilitano una funzione deficitaria come in caso di esiti di trauma, deficit di forza, paralisi o lesioni nervose.

 

CLAUDIO CECCARELLI, FT – OMPT

  • Fisioterapista
  • Orthopaedic Manipulative Physical Therapist (OMPT)
  • Assistente alla Didattica Università di Roma “Tor Vergata”, Master in Terapia Manuale Applicata alla Fisioterapia
  • Specializzato nella Riabilitazione dei Disordini  Muscoloscheletrici di Spalla, Gomito e Mano
  • Membro del gruppo di ricerca scientifica G.E.R.I.C.O (Generic Elbow Rehabilitation and Integrated Orthopaedic Collaboration)
Tendinopatia nel tennista, cosa NON fare!

Tendinopatia nel tennista, cosa NON fare!

TENDINOPATIA: Se sei un tennista probabilmente considererai interessante quanto scritto di seguito.

La presenza di dolore ad un tendine, sia che si parli di gomito del tennista e sia che si parli dell’achilleo è una caratteristica clinica molto frequente tra i tennisti, sia nel livello agonistico che amatoriale. La tendinopatia nel tennista è comune e può influire sulle abilità di gioco o addirittura impedire al giocatore di scendere in campo.

E’ comunemente accettato come la causa primaria di tale condizione sia nel sovraccarico funzionale, anche se ad oggi non è del tutto chiaro l’eziologia e la patogenesi di una tendinopatia.

Tendinopatia e definizione: non chiamiamola più tendinite.

Con il termine di tendinopatia ci riferiamo ad un tendine anormale, doloroso e che peggiora col carico e l’attività fisica. Una volta veniva definita tendinite (infiammazione del tendine) ma da studi recenti è ormai chiaro che essa non è associata ad un processo infiammatorio classico ma all’incapacità del tendine di sopportare un carico.

La ricerca scientifica sulle cure delle tendinopatie, sia degli arti superiori (cuffia dei rotatori nella spalla ed epicondilalgia) che degli arti inferiori (tendine d’Achille e tendine rotuleo), sta facendo passi da gigante. Ancora non si conosce il metodo migliore per trattarle, ma intanto sappiamo cosa non fare, il che ci permette di focalizzare il processo di cura sui metodi che sembrano funzionare di più e soprattutto abbandonare quelli che fanno perdere solo tempo e sprecare soldi.

Tendinopatia: in che fase sei?

La fisioterapista australiana Jill Cook, che noi di Physiotherapy conosciamo molto bene, divide il processo di tendinopatia in due fasi:

  1. Reattiva / inizio lesione
  2. Fine lesione / degenerativa

Determinare lo stadio di una tendinopatia è fondamentale nel formulare correttamente il piano di trattamento.

Un carico di allenamento eccessivo nel tennis, soprattutto in eccentrica,  potrebbe peggiorare le cose in una tendinopatia reattiva, ma potrebbe aiutare nella fase degenerativa – questo è il motivo per cui la fase è così importante! Se non si identifica la fase giusta si potrebbero peggiorare le cose!

In poche parole con una tendinopatia nella sua fase iniziale e quindi reattiva, sarà molto importante ridurre il carico di allenamento (frequenza e volume) ma sopratutto modificare o ridurre il carico eccentrico. L’obiettivo principale durante questo stadio è quella di contribuire alla guarigione del tessuto piuttosto che peggiorare la patologia del tendine.  Di particolare importanza è la riduzione dei movimenti che combinano sia carichi di compressione che di trazione (NO STRETCHING). È importante gestire in maniera ottimale il carico di lavoro, il che non significa scaricare completamente il tendine, comportamento che potrebbe peggiorare la qualità del tendine, ma ridurre il carico ad un livello che permetta al tendine di recuperare. Questo potrebbe significare evitare momentaneamente la corsa e la modifica del carico di allenamento a seconda della gravità della tendinopatia.

Una tendinopatia invece nella sua fase degenerativa risponderà meglio al carico graduale e progressivo che terminerà con il rafforzamento eccentricoe pliometrico, sempre nel rispetto del dolore.

Tendinopatia: cosa non fare

Abbiamo visto come ci dobbiamo comportare di fronte ad un tendine doloroso ed abbiamo capito l’importanza della fase della patologia tendinea. Ora capiamo cosa non fare quando ci troviamo di fronte ad un quadro clinico doloroso di natura tendinea.

1) RIPOSO ASSOLUTO

Il riposo comporta solo una riduzione della capacità del tendine di sopportare i carichi, peggiorando quindi la patologia esistente. Ma se il carico su un tendine crea dolore, cosa si può fare? Ridurre il carico a livello tollerabile ed incrementare gradualmente la tolleranza del tendine al carico.

2) FARE TRATTAMENTI PASSIVI

I trattamenti passivi come ghiaccio o terapia fisica (tecar – laser etc etc) possono ridurre il dolore nel breve periodo, ma sono totalmente inefficaci sul lungo periodo.

3) FARE INFILTRAZIONI

Le infiltrazioni non sono efficaci. Riducono il dolore per pochi giorni, ma sul medio e lungo periodo, oltre a non guarire il problema, peggiorano la patologia. Non fare mai un’infiltrazione senza prima aver provato un programma serio di fisioterapia basata su esercizi scientificamente validati.

4) IGNORARE IL DOLORE

Il dolore non deve fare paura, ma deve essere usato come segnale per capire quanto il tendine può essere caricato. La comparsa del dolore ci avvisa di un eccessivo carico sul tendine.

5) FARE STRETCHING

Lo stretching aumenta le forze compressive sul tendine peggiorando la sintomatologia. Se la muscolatura è rigida è preferibile un massaggio.

6) MASSAGGIARE IL TENDINE

Non conviene massaggiare direttamente il tendine perché si potrebbe solo peggiorare la situazione. Talvolta può derivarne un sollievo momentaneo salvo poi peggiorare di nuovo in poco tempo. Il massaggio può invece essere utile sulla muscolatura che si attacca al tendine sofferente.

7) ESSERE PREOCCUPATO DALLA DIAGNOSTICA PER IMMAGINI

Non bisogna aver paura dei risultati degli esami strumentali. Un tendine patologico può, anzi deve essere caricato (sempre seguendo i consigli di un esperto). Nei referti, parole come “degenerazione” o “lesione” possono spaventare il paziente che tenderà a non fare più nulla che comporti l’utilizzo del tendine. Un tendine “degenerato” può rispondere positivamente al carico, soprattutto se somministrato gradualmente.

8) AVER PAURA DELLA ROTTURA

La maggior parte delle persone che hanno subito la rottura di un tendine non avvertivano nessun tipo di dolore in precedenza. Quindi non bisogna aver paura di una possibile rottura perché si sente male. Il dolore ci aiuta a capire come ricalibrare i carichi che il tendine può sopportare.

9) PRENDERE DELLE SCORCIATOIE 

Dedicare poco tempo alla fisioterapia non funziona. Terapie passive (ultrasuoni, tecar, tens) possono produrre un beneficio, ma solo nel brevissimo termine. Occorrerà subito ridurre il carico quando basta e pianificare un programma di rinforzo con carico graduale progressivo, monitorando costantemente il dolore.   E’ importante capire che durante un allenamento od una partita di tennis il tendine viene caricato tantissimo. Preparare gradualmente il tendine di un tennista al suo carico reale rappresenta la strada migliore.

10) NON CAPIRE QUALI ESERCIZI SONO BENEFICI E QUALI NO PER IL TENDINE

Salti, cambi di direzione, sprint sono attività da evitare nel primo periodo e da gestire con un aumento progressivo in seguito. Esercizi di forza possono invece aiutare molto la guarigione di un tendine.

Il messaggio da portare a casa è che una riabilitazione basato sull’esercizio terapeutico a carico progressivo e graduale rappresenta il trattamento migliore nella gestione clinica di un dolore tendineo del tennista.

Tendinopatia: le conclusioni

Se soffri di un dolore al tendine o se ne hai mai sofferto in passato ora sai quanto sia importante la gestione del carico ottimale.

Un programma progressivo con esercizi di forza e resistenza darà al tendine i carichi appropriati e sarà in grado di produrre i risultati migliori nel lungo termine. La quantità di carichi non è la sola variabile da monitorare, anche l’aumento dei carichi in modo inappropriato sembra essere un fattore di rischio.

I fisioterapisti di Physiotherapy gestiscono quotidianamente tennisti amatoriale e di elite attraverso una specifica riabilitazione, con protocolli di allenamento  dello sportivo professionista per il completo recupero e la piena performance.

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Rizoartrosi: una valida soluzione per togliere il dolore

Rizoartrosi: una valida soluzione per togliere il dolore

RIZOARTROSI: DEFINZIONE

L’articolazione carpo metacarpale ( trapezio-metacarpica) del pollice gioca un ruolo estremamente importante nella funzionalità della mano. Essa è facilmente soggetta ad artrosi (rizoartrosi), la più comune malattia degenerativa delle articolazioni che si manifesta già a partire dalla maggiore età.

Essa rappresenta il risultato di un complesso sistema di interazioni meccaniche, biologiche, biochimiche, molecolari ed enzimatiche che hanno come risultato finale il deterioramento del tessuto articolare.

E’ un disordine dell’articolazione sinoviale caratterizzato da aree di distruzione focale della cartilagine articolare (che radiologicamente s’esprime con l’assottigliamento della cartilagine), da rimodellamento dell’osso sub condrale (che si esprime con la sclerosi, la formazione delle cisti e degli osteofiti), dall’infiammazione cronica della sinovia e dalla retrazione fibrotica della capsula articolare.

RIZOARTROSI: CARATTERISTICHE CLINICHE

La rizoartrosi costituisce il 10% delle localizzazioni artrosiche e colpisce soprattutto le donne. Il paziente che più comunemente presenta l’interessamento dell’articolazione basale del pollice, è una donna, di età compresa tra i 50 e i 70 anni, con dolore sulla porzione radiale della mano o del pollice a insorgenza insidiosa; la durata varia da alcuni mesi a svariati anni.

I pazienti con rizoartrosi si riscontrano facilmente nella pratica clinica, in cerca di cure per ridurre il loro dolore e per migliorare la funzionalità quotidiana.

LA GIUSTA TERAPIA FISIOTERAPICA

Le tipiche tipologie di terapie fisioterapiche adottate per la gestione di questi pazienti includono la terapia manuale e l’esercizio terapeutico.

Le tecniche di terapia manuale utilizzate comprendono sia tecniche articolari passive e sia tecniche di neuro dinamica, ovvero tecniche di mobilizzazione neurale.

Studi recenti hanno dimostrato che 4 – 6 sedute fisioterapiche di mobilizzazioni eseguite con una frequenza di 2 volte a settimane sono in grado di ridurre il dolore  (specie alla pressione) e la funzionalità, rispetto ad altri tipi di trattamento.

 

Nel caso di una condizione dolorosa cronica, la mobilizzazione del nervo è in grado di produrre una significativa ipoalgesia meccanica ed un aumento della forza di presa nei pazienti con rizoartrosi, ed è quindi  considerato un valido strumento terapeutico nei pazienti con rizoartrosi in cui vi è anche una condizione di sensibilizzazione centrale e periferica.

Per quanto riguarda le tecniche di terapia manuale ortopediche queste sono ampiamente utilizzate nella gestione clinica  dei pazienti che presentano una rizoartrosi. Tecniche di mobilizzazioni articolari, trazioni e tecniche di glide sono spesso usati per allungare la capsula articolare e per recuperare i movimenti accessori, al fine di ridurre il dolore e migliorare l’escursione articolare.

Gli esercizi hanno lo scopo di migliorare l’escursione articolare libera dal dolore, incrementare la forza, mantenere la stabilità articolare ed evitare deformazioni del pollice.

Un ulteriore studio ha dimostrato come un trattamento multimodale comprensivo di  tecniche di mobilizzazione articolare, tecniche di neuro dinamiche ed esercizi terapeutici, della durata di 12 sedute con una frequenza di 3 sedute a settimana, possa produrre risultati importanti in termini di riduzione del dolore e ripristino della funzionalità.

Questo approccio prevedeva:

  • Tecniche di terapia manuale, ovvero distrazione e glide postero anteriore (3 minuti di trattamento ripetuto per 3 volte);
  • Tecniche di neuro dinamica sul nervo mediano e sul nervo radiale in slider: è una manovra che ha lo scopo di produrre un movimento di scivolamento della struttura neurale in relazione ai tessuti anatomici adiacenti. Durata della tecnica: due serie da 5 minuti ognuna, con pausa di 1 minuto tra ogni serie.

Se la pratica clinica non segue le linee guida basate sull’evidenze, non offriamo il meglio ai nostri atleti. PHYSIOTHERAPY segue sempre queste linee guida!

 Physiotherapy non tratta un SINTOMO, ma una persona che presenta un sintomo doloroso

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TENNIS E INFORTUNI, OLTRE AL GOMITO C’E’ DI PIU’

TENNIS E INFORTUNI, OLTRE AL GOMITO C’E’ DI PIU’

QUALI SONO I DISTRETTI MAGGIORMENTE SOGGETTI AD INFORTUNI NEL TENNISTA?

È pensiero comune associare al tennista, amatoriale o professionista, come unica patologia la tendinopatia laterale di gomito, meglio conosciuta come “gomito del tennista”; ahimè, soprattutto se parliamo di atleti d’élite dove il gesto tecnico sport specifico è curato nei minimi dettagli, questo disturbo è piuttosto infrequente. Vediamo insieme quali sono gli altri distretti articolari che possono andare incontro a problematiche in chi compie questo sport.

SPALLA

Il dolore alla spalla è presente nel 24% dei tennisti di alto livello dai 12 ai 19 anni con una prevalenza che aumenta fino al 50% per i giocatori di mezza età.

COME COMPORTARSI DI FRONTE AD UNA LESIONE DELLA CUFFIA DEI ROTATORI

Gli infortuni alla spalla sono comunemente dovuti all’uso ripetitivo e possono essere correlati a discinesia scapolare, patologie della cuffia dei rotatori o deficit di rotazione interna gleno-omerale con conseguente conflitto interno e/o patologia del labbro gleno-omerale.

In generale, i sintomi nel giovane tennista di alto livello sono correlati all’instabilità mentre la cuffia dei rotatori è più comunemente coinvolta nel giocatore adulto. A causa dell’incidenza elevata della patologia di spalla nei tennisti, alcuni autori hanno messo in dubbio che chi pratica tennis possa avere un maggior rischio di artrite gleno-omerale. Una studio ha analizzato 18 giocatori di tennis senior senza alcun pregresso chirurgico o trauma alla spalla e li ha confrontati con controlli di pari età che non giocavano a tennis. I risultati hanno mostrato che il 33% dei tennisti aveva segni radiografici di alterazioni degenerative a livello gleno-omerale del braccio dominante rispetto a solo l’11% dei controlli.

VIDEO DI 3 ESERCIZI FONDAMENTALI PER UN TENNISTA

ANCA

Lesioni all’articolazione dell’anca rappresentano dall’1% al 27% di tutti gli infortuni nei giocatori di tennis. In un periodo di 6 anni, Hutchinson et al hanno riportato un’incidenza di 0,8 ogni 1000 esposizioni atletiche e una prevalenza di 1,3 problematiche d’anca  su 100 tennisti junior d’élite. Sanchis-Moysi et al. hanno studiato le dimensioni dell’ileopsoas e dei muscoli glutei nei tennisti professionisti così come nei giocatori di calcio professionisti mediante risonanza magnetica e hanno scoperto che i tennisti presentavano un’ipertrofia asimmetrica dell’ileopsoas e un’inversione del normale equilibrio dominante-non dominante osservato nei controlli non attivi mentre i muscoli glutei risultavano ipertrofizzati in maniera asimmetrica.

Poiché l’ileopsoas può causare dolore inguinale da tendinoptia o borsite, i giocatori di tennis potrebbero essere più sensibili a queste patologie a livello dell’arto inferiore non dominante.

Così come per altre articolazioni, è stata trovata una correlazione tra partecipazione atletica e artrite dell’anca in ex atleti d’élite. Uno dei maggiori studi che coinvolgono ex atleti d’élite femminili che hanno gareggiato nella corsa e nel tennis hanno avuto un aumento del 250% della prevalenza di osteofiti intorno all’articolazione dell’anca rispetto ai controlli. Inoltre, questa stessa indagine ha riportato che c’era un tasso doppio di formazione di osteofiti intorno all’anca nei giocatori di tennis rispetto ai corridori.

GINOCCHIO

Un ampio studio epidemiologico ha documentato 397 atleti di tutti i livelli di abilità e di età con 530 infortuni sportivi in un periodo di 10 anni; ci sono stati circa 300 infortuni al ginocchio legati al tennis e di questi, l’11% ha avuto un danno del legamento crociato anteriore (LCA) confermato nel follow-up.

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Questa stessa indagine ha riportato che il legamento collaterale laterale e patologie del menisco mediale erano più frequenti nei giocatori di tennis rispetto ad altri sport.

Oltre alla lesione del LCA sono molto frequenti nel tennista il dolore femoro-rotuleo (in particolare nelle femmine) e la tendinopatia rotulea (“jumper’s knee”). Thelin et al hanno studiato l’associazione tra la partecipazione al tennis e l’artrite al ginocchio in oltre 150 tennisti svedesi, rispetto ai controlli non praticanti ed hanno scoperto che non vi era alcuna correlazione significativa.

GAMBA

La “gamba del tennista” coinvolge la porzione mediale del muscolo gastrocnemio. Un’ampia popolazione di 720 atleti di tutti i livelli di abilità con “stiramento dei muscoli del polpaccio” studiati per un periodo di 12 anni ha rilevato che il 16% dei casi era dovuto ad attività legate al tennis. Indagini separate hanno dimostrato che lesioni del polpaccio e del tendine di Achille rappresentavano dal 4% al 9% di tutte le lesioni legate al tennis.

SCHIENA

Tra gli atleti, il mal di schiena ha una prevalenza che arriva fino all’85%.

In 148 tennisti professionisti, Marks et al. hanno riscontrato che il 38% riferiva di aver perso un torneo a causa del mal di schiena e il 29% soffriva di mal di schiena cronico.Un altro studio ha rilevato che il 50% dei giocatori di tennis d’élite soffriva di dolori alla schiena di almeno 1 settimana, con il 20% di questi soggetti che manifestavano un dolore “grave”.

COME PROTEGGERE LA ZONA LOMBARE DELLA SCHIENA 

Il gesto tecnico del servizio è il colpo più comunemente eseguito durante la competizione tennistica. Alcuni autori hanno teorizzato che l’esecuzione ripetuta del movimento del servizio potrebbe portare a problematiche in questo distretto.  Indagini di laboratorio hanno mostrato forze significativamente più alte nella porzione lombare per il servizio in Kick (‘topspin’) rispetto allo Slice o Flat, e portando potenzialmente a un maggior rischio di infortuni.

Data l’elevata frequenza di mal di schiena nei giocatori di tennis, sono stati intrapresi studi per determinare la prevalenza di anomalie radiografiche alla colonna in questi atleti; Alyas et al hanno eseguito una risonanza magnetica su tennisti d’élite asintomatici adolescenti e hanno rilevato che oltre l’80% presentava anomalie strutturali. Sebbene sia nota la presenza di patologie strutturali di schiena nei giocatori di tennis, la causa più comune di mal di schiena è legata alle strutture muscolari lombari piuttosto che a una patologia spinale.

FRATTURE DA STRESS 

Un recente studio sulle fratture da stress nei tennisti condotto da Maquirriain et al. ha seguito una coorte di 139 tennisti d’élite per un periodo di 2 anni ed hanno riscontrato un’incidenza di fratture del 13%, con il navicolare tarsale il più colpito (27%), seguito dalla pars interarticularis (16%), dai metatarsi (16%) e dalla tibia (11%). I minori di 18 anni erano maggiormente soggetti a fratture rispetto agli adulti.

Nell’estremità superiore, Balius ha riportato una serie di casi di sette fratture da stress metacarpale in tennisti junior di alto livello; tutte le fratture da stress erano localizzate nel secondo metacarpo ad eccezione di una che si trovava nel terzo metacarpo. Hanno trovato un’associazione con l’intensità di gioco e hanno teorizzato che la presa western o semi-western potrebbe essere un ulteriore fattore di rischio. Le aree meno comuni di fratture da stress nei giocatori di tennis che sono state riportate in letteratura, per lo più come casi clinici, sono state l’ischio, la prima costola, l’omero, l’osso sacro, la rotula, il gancio dell’amato, l’ulna e la porzione distale del radio.  

Bibliografia

CLAUDIO CECCARELLI, PT – OMPT

  • Fisioterapista
  • Orthopaedic Manipulative Physical Therapist (OMPT)
  • Assistente alla Didattica Università di Roma “Tor Vergata”, Master in Terapia Manuale Applicata alla Fisioterapia
  • Specializzato nella Riabilitazione dei Disordini  Muscoloscheletrici di Spalla, Gomito e Mano
  • Membro del gruppo di ricerca scientifica G.E.R.I.C.O (Generic Elbow Rehabilitation and Integrated Orthopaedic Collaboration)