Dolore: ruolo della sensibilizzazione centrale

Dolore: ruolo della sensibilizzazione centrale

Esiste un legame indissolubile tra il fisioterapista e il paziente. Un legame su cui si fondano tutti i trattamenti fisioterapici. Ciò che li lega è il dolore. Acuto ma ancor di più quello cronico.

Esso è una lotta che ciclicamente mette a dura prova il paziente, ma che il fisioterapista affronta quotidianamente nella propria pratica clinica. Dunque in questo contesto, dove con un occhio si guarda ai fondamentali principi biomeccanici e con un altro al crescente modello biopsicosociale, è doveroso da parte del fisioterapista aggiornarsi sui moderni concetti della nocicezione.

Alcuni pazienti con dolore cronico, inclusi pazienti con dolore persistente al collo, mal di schiena, fibromialgia, sindrome sub acromiale, mal di testa, tendinopatia etcetc mostrano caratteristiche che suggeriscono una sensibilizzazione centrale del dolore (CS), un processo caratterizzato da una ipersensibilità generalizzata del sistema somatosensoriale.

Definito come un’amplificazione del segnale neurale a livello del sistema nervoso centrale, questo studio, assieme ad altri, fornisce un’evidenza in supporto di una sensibilizzazione centrale  in pazienti con dolore cronico attraverso l’osservazione di immagini cerabrali, test psicofisici con variati stimoli o studio sul metabolismo cerebrali.

 

La sensibilizzazione centrale del dolore riflette un aumento delle vie ascendenti del dolore ed un mal funzionamento delle via inibitorie discendenti che esita in una disfunzione del controllo endogeno analgesico.

 

In più la neuromatrice del dolore è probabile essere iperattiva in pazienti con CS: un incrementata attività è presente nelle aree cerebrali che sono coinvolte nella percezione del dolore acuto e nella sua sensazione, come la corteccia insulare, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia pre frontale, ma non la corteccia somatosensoriale primaria e secondaria.

Un’iperattività della neuromatrice comporta inoltre attività cerebrali in regione in genere non coinvolte nella senso percezione del dolore acuto come nuclei cerebrali di cellule staminali, corteccia frontale dorso laterale, e corteccia associativa parietale.

 

I risultati di ricerche suggeriscono:

  • uno specifico ruolo del tronco encefalico nella mantenimento della CS negli adulti;
  • un aumento a lungo termine di sinapsi neuronali nella corteccia cingolata anteriore, nucleo accumbens, corteccia insulare e corteccia sensomotoria;
  • una diminuzione del neurotrasmettirore acido gammaamminobutirrico(GABA)

Di conseguenza una riabilitazione di un mal di schiena cronico, per esempio, potrebbe suggerire l’utilizzo nella pratica clinica di strumenti che potrebbero invertire l’abnorme funzione cerebrale riducendo l’iperattività del sistema nervoso centrale ed incrementando il volume corticale prefrontale.

Viste le molteplici sfaccettature del dolore cronico suggeriamo quindi l’importanza di un approccio multidisciplinare,  per lo sviluppo di strategia di trattamento di questa alterazione della modulazione centrale del dolore.

 

Nijs J, Torres-Cueco R, van Wilgen CP, Girbes EL, Struyf F, Roussel N, van Oosterwijck J, Daenen L, Kuppens K, Vanwerweeen L, Hermans L, Beckwee D, Voogt L, Clark J, Moloney N, Meeus M. Applying modern pain neuroscience in clinical practice: criteria for the classification of central sensitization pain. Pain Physician. 2014 Sep-Oct;17(5):447-57.

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25247901

Cefalea ed esercizio terapeutico

Cefalea ed esercizio terapeutico

Il mal di testa è frequentemente riscontrato nella pratica clinica del fisioterapista: è un disturbo comune che colpisce fino al 66% della popolazione con una prevalenza stimata del 96%.

Il mal di testa cervicogenico(CGH), come suggerisce la diagnosi, si riferisce ad un mal di testa d’origine cervicale.L’International Headache Society (HIS) definisce questo disturbo come “mal di testa’causato da un problema del rachide cervicale e la sua componente ossea, discale e/o dei tessuti molli, di solito, ma non sempre, accompagnata da dolore al collo.

Ci sono 2 categorie basiche di mal di testa,primaria e secondaria.

  1. I mal di testa primari includono quelli di origine vascolare (grappolo e emicrania), così come quelli di origine muscolare (cefalea);
  2. I mal di testa secondari, o cefalea cervicogenica, rappresentano il 20% di tutti i mal di testa cronici e la fascia di età più colpita e’ tra 20 ed I 40 anni. La sua eziologia rimane ancora oggi poco chiara; Numerosi studi hanno dimostrato l’influenza articolare nella generazione del dolore alla testa in particolar modo dell’articolazione C1-C2. Norlander e collaboratori hanno riportato nei loro studi un’associazione tra riduzione della mobilità nella giunzione cervico – toracica e la presenza di neck pain. Nel 2004 Hall & Robinson hanno appurato nei loro studi che nell’80% dei pazienti con mal di testa il generatore di dolore era localizzato nell’articolazione C1-C2.

La “CERVICOGENIC INTERNATIONAL STUDY GROUP” (CHISG) ha formulato una classificazione per diagnosticare questo disturbo e prevede:

  • unilateralità del dolore
  • Riproduzionedellacefalea con posizioni del colloprolungate
  • Riproduzione del dolorealladigitopressione a livello del rachidecervicalesuperiore
  • Deficit di mobilità
  • Dolorediffusochepuòarrivareallaspalla
  • Dolore diffuso che può arrivare al braccio
  • Dolore che origina posteriormente e finisce anteriormente.

 

ESERCIZIO TERAPEUTICO

Jill e i suoi colleghi hanno utilizzato un esercizio specifico, la ‘flessione craniocervicale ‘(CCF), ovvero un esercizio per l’attivazione dei muscoli flessori profondi del collo in pazienti con dolore cervicale cronico. Nel loro studio su 200 pazienti con CGH, Jill e colleghi hanno scoperto che 6 settimane di esercizio CCF sono risultati essere efficaci quanto una manipolazione vertebrale cervicale nel ridurre la frequenza e l’intensità della cefalea,così come il dolore cervicale fino a 1 anno.Durante l’esercizio CCF, un bracciale in grado di valutare variazioni di pressione (vedo foto) è stato posto dietro il collo mentre il paziente giaceva in posizione supina come descritto in precedenza per il Test CCF. Il bracciale veniva gonfiato a 20 mm Hg e il paziente è stato istruito a flettere molto lentamente la colonna vertebrale cervicale superiore con un movimento delicato, rimanendo fermo per 10 secondi senza l’attivazione della SCM (sterno-cleido-mastoideo). L’esercizio progredisce aumentando il gonfiaggio della cuffia da 10 mm Hg verso un obiettivo di 40 mm Hg.Rispetto alla flessione normale della cervicale, il CCF ha bassa attivazione del SCM,che può essere desiderabile in pazienti con squilibrio muscolare.Mentre questo biofeedback che usa il manometro può essere efficace, esercizi simili possono essere effettuati a casa utilizzando un asciugamano arrotolato L’esercizio inizia in posizione supina e procede per la combinazione con entrambe le braccia alzate bilateralmente.

Single Leg Deadlift: rinforzo e prevenzione Hamstring

Single Leg Deadlift: rinforzo e prevenzione Hamstring

 

Molti studi hanno investigato l’efficacia degli esercizi eccentrici (in modo particolare del Nordic hamstring exercise) nella prevenzione delle lesioni muscolari degli hamstring. Nonostante la riduzione degli infortuni osservata negli studi sia stata significativa,

La debolezza degli hamstring è considerata un fattore di rischio modificabile. Per massimizzare la forza muscolare, processo che coinvolge aspetti neurali e muscolari, è raccomandato un allenamento con carichi del 60-70% della ripetizione massimale per gli atleti di livello basso/medio, mentre con carichi dell’80-100% per gli atleti di alto livello.

 

Per produrre uno stress degli hamstring maggiore di quello generato nella fase terminale di oscillazione, gli esercizi dovrebbero essere eseguiti con una flessione di anca di circa 80°

 

Per ottimizzare la prevenzione, gli esercizi dovrebbero essere eseguiti a velocità angolari basse o moderate, poiché gli adattamenti osservati dopo l’esecuzione di un programma di rinforzo eccentrico a basse velocità angolari potrebbero proteggere il complesso miotendineo degli hamstring dalla brusca elongazione che occorre nella fase terminale di oscillazione durante uno scatto.

 

Gli esercizi unilaterali sembrano essere più specifici. Gli esercizi che prevedono una flessione di anca effettuati bilateralmente determinano un tilt posteriore del bacino, riducendo di conseguenza lo stress in elongazione degli hamstring.

Esercizi isometrici ed isotonici riducono il dolore

Esercizi isometrici ed isotonici riducono il dolore

I programmi basati su esercizi isometrici ed isotonici riducono il dolore in atletici con tendinopatia rotulea durante la stagione? 

Molti atleti con tendinopatia rotulea praticano sport nonostante una sintomatologia dolorosa sia durante che dopo l’attività.

La tendinopatia rotulea, meglio conosciuta come ‘ginocchio del saltatore’, è una patologia da sovraccarico con conseguente dolore e perdita della funzione. Colpisce principalmente chi pratica quell’attività caratterizzata da movimenti esplosivi che caricano i muscoli estensori del ginocchio (basket e pallavolo)

Differenti modalità di trattamento, come iniziezioni, onde d’urto e chirurgia richiedono all’atleta di interrompere la pratica agonistica.

L’esercizio dovrebbe essere il trattamento elettivo per la tendinopatia in grado di produrre cambiamenti istologici (migliorando i processi di riparazione) e miglioramenti del quadro clinico in termini di dolore e capacità di carico.

Molti studi sono stati condotti utilizzando protocolli di esercizi eccentrici , evidenziando come questi producano risultati postivi in termini di attività cellulare,  produzione di proteine e la riorganizzazione della matrice cellulare. Tuttavia questi esercizi andrebbero eseguiti al di fuori del periodo agonistico, in quanto potrebbero peggiorare la sintomatologia.

Esercizi isometrici ed isotonici sono in grado di diminuire il dolore  durante l’attività agonistica. Contrazioni isotoniche muscolari  (ad alto carico eseguite lentamente 3 – 5 volte la settimana) sono in grado di ridurre il dolore dopo 12 settimane. Esercizi isometrici  diminuiscono il dolore a livello del tendine  nel breve termine ( 45 minuti).

 

Questo studio mostra una diminuzione importante del dolore in atleti  con tendinopatia  durante la stazione, sia attraverso esercizi isometrici e sia attraverso esercizi isotonici.

Il dosaggio (numero di ripetizioni, giorni della settimana e durata della contrazione) ed il tipo di esercizio sono caratteristiche importante di un programma di esercizi.  Un alta percentuale di ripetizioni massimali (RM) è stato usato in questo studio sia per  le contrazioni isometriche (80% 1 RM) e sia per gli esercizi isotonici (80% 8RM).

 

Gli esercizi isometrici producono una riduzione del dolore ed una inibizione corticale, in grado di ridurre il dolore nel breve termine, mentre gli esercizi isotonici stimolando l’attività cellulare, la produzione di proteine, e riorganizzando  la matrice tendinea, aumentano la capacità di carico del tendine e riducono il dolore

 

IMPLICAZIONI PRATICHE

  • Questo studio mostra come gli esercizi isometrici ed isotonici sia in grado di diminuire il dolore durante la stagione agonistica negli atleti con tendinopatia rotulea.

  • Questi esercizi, di facile esecuzione, sono meno dispendiosi rispetto agli esercizi eccentrici, che nel momento potrebbero produrre una aumento della sintomatologia, e che andrebbero eseguiti, di conseguenza, lontani dalla stagione agonistica.

STRETCHING E PERFORMANCE: MEDICINA BASATA SULLE EVIDENZE O MEDICINA BASATA SULLE OPINIONI ?

STRETCHING E PERFORMANCE: MEDICINA BASATA SULLE EVIDENZE O MEDICINA BASATA SULLE OPINIONI ?

Lo stretching funziona davvero nel ridurre il dolore muscolare dopo l’esercizio fisico? 

 

 

Quella dello stretching è una pratica molto comune tra gli sportivi, in generale di tutte le discipline e in particolare di quelle che richiedono un’elevata elasticità motoria.

Molti atleti e addetti ai lavori (preparatori atletici in primis) suggeriscono “l’allungamento muscolare” prima o dopo l’attività fisica per prevenire gli infortuni, ridurre i dolori muscolari post-allenamento o migliorare la performance.

Ma è possibile affermare che questa pratica sia davvero utile?

 

Per dare una risposta al quesito clinico, come per altri quesiti in campo sanitario, sono possibili tre strade diverse:

  1. a) affidarsi al parere “degli esperti”, cioè al pensiero e alla conoscenza di chi “dovrebbe saperne” in merito
  2. b) fare come fanno tutti o come si è sempre fatto (quindi affidarsi all’esperienza)
  3. c) affidarsi ai principi della Medicina Basata sulle Prove di Efficacia, che è il risultato delle migliori evidenze scientifiche disponibili al momento (studi scientifici di buona qualità provenienti dalla ricerca) e unitamente all’esperienza del clinico tiene in considerazione anche i valori del paziente.

Evidenze scientifiche sullo stretching 

Da una Revisione Sistematica della Letteratura Cochrane* del 201l spicca l’analisi di 12 studi clinici che hanno valutato l’effetto dello stretching prima, dopo, o prima e dopo l’attività fisica.

Tale analisi ha evidenziato come lo stretching non abbia alcun effetto clinicamente rilevante, o effetti molto limitati, sul dolore muscolare che insorge nella settimana in cui si pratica sport.

Proviamo quindi a rispondere ad alcuni quesiti molto comuni sulla base dei risultati emersi.

  • Lo Stretching migliora la performance ?

Secondo la revisione sistematica con meta-analisi (una tecnica statistica per calcolare l’effetto globale di più studi) di Simic e colleghi del 2013, lo stretching statico, eseguito come tecnica di riscaldamento, andrebbe generalmente evitato perché è stato visto influenzare negativamente la prestazione in termini di forza (-5.4%), potenza (-1.9%) ed esplosività (-2%), indipendentemente dal sesso, dall’età, e dal livello di preparazione atletica. I risultati negativi erano minori (anche se non assenti) se lo stretching veniva mantenuto per meno di 45 secondi.

La flessibilità muscolare secondo uno studio di O’Sullivan e colleghi non è un fattore così determinante nella performance atletica come siamo stati abituati a pensare e inoltre la flessibilità muscolare stessa può essere ottenuta anche diversamente dal classico stretching. Secondo una revisione della letteratura di Behm e colleghi (2011), lo stretching statico ha un effetto deleterio sulla prestazione se eseguito prima, ad esempio nel riscaldamento. Questa tipologia di stretching in allungamento statico andrebbe ad indurre delle modifiche nell’adattamento muscolare che possono influenzare la funzione tipica del muscolo che invece è in allungamento-accorciamento, manifestando le problematiche maggiori nella diminuzione della forza o della massima potenza muscolare.

E’ stato visto invece che può avere degli effetti sull’escursione articolare se utilizzato in una sessione diversa da quella dell’allenamento: produrrebbe in sostanza una maggiore sensazione di “libertà nel movimento”. Se effettuato per una durata di secondi limitata può non interferire sulla prestazione atletica, soprattutto se si tratta di atleti ben allenati.

Lo stretching dinamico invece potrebbe non avere effetti negativi sulla performance (o in misura ridotta), soprattutto se eseguito per un periodo prolungato. Potrebbe inoltre andare a compensare gli effetti negativi dello stretching statico se effettuato dopo di questo e seguito ulteriormente da alcuni minuti di riscaldamento.

Particolare attenzione andrebbe posta se si decidesse di implementare lo stretching statico, di qualsiasi durata, se lo sport coinvolto prevede contrazioni rapide, alte velocità o se è  necessaria esplosività ed elevate forze di reattività, soprattutto laddove ogni minima variazione negativa della performance può risultare determinante (come nel caso degli sport di velocità). In questi casi il riscaldamento dovrebbe essere impostato con esercizi diversi.

 

Gli autori sconsigliavano quindi di praticare stretching, soprattutto statico, prima di sessioni alta intensità, di forza o esplosività come potrebbero essere le ripetute.

E’ consigliato invece optare per lo stretching, data la sensazione generale di benessere che produce a seguito dell’aumentata articolarità, nella fase del defaticamento o in una sessione indipendente, lontana dagli allenamenti o dalle gare, per raggiungere un cambiamento più stabile nella flessibilità muscolare soggettiva.

 

  • Lo Stretching previene gli infortuni?

 Anche in questo caso i risultati della ricerca scientifica non sembrano deporre a favore dello stretching che non si è dimostrato efficace nel ridurre il rischio di infortuni. Per raggiungere questo obiettivo, così come nel miglioramento della prestazione atletica, sono maggiormente indicati dei programmi specifici di rinforzo.

Nella revisione della letteratura di Small e colleghi del 2008, dei 7 studi analizzati, soltanto uno dimostrava una riduzione del numero totale degli infortuni; 4 studi erano concordi nello stabilire che lo stretching non riducesse la percentuale degli infortuni e 3 invece avevano notato una riduzione nella sola tipologia degli infortuni muscolari e legamentosi: tuttavia non si riduceva il numero totale degli infortuni. Gli autori dello studio concludevano che l’evidenza sull’inefficacia dello stretching era di livello moderato/forte.

La revisione della letteratura di Lewis del 2014 va in direzione leggermente diversa, ma gli articoli analizzati riguardavano l’utilizzo concomitante di strategie di riscaldamento e quindi il possibile effetto negativo dello stretching può essere stato in qualche misura mitigato da altre tecniche di riscaldamento: non vi era quindi un effetto negativo dello stretching, riguardo la prevenzioni degli infortuni, ma nemmeno un effetto positivo in quanto le evidenze erano inconclusive. I migliori risultati sembravano esserci quando si optava per un programma personalizzato e sport-specifico che comprendesse sia lo stretching che un opportuno e specifico riscaldamento. Più che lo stretching in se quindi, per quanto riguarda la prevenzione degli infortuni, è opportuno impostare degli esercizi mirati, specifici e individuali, sulla base dello sport praticato e dell’atleta: in questi casi, quando le evidenze scientifiche sono limitate o non esaustive, è giusto e opportuno tenere in considerazione anche le specifiche abitudini o sensazioni riscontrate dai pazienti stessi (uno dei principi della Medicina Basata sulle Prove di Efficacia).

 

  • Lo Stretching serve davvero per “allungare” i muscoli? 

Anche questo “mito” è stato messo in discussione con un recente studio di Konrad e colleghi, i quali hanno testato un programma di “allungamento” di 6 settimane per il polpaccio e il tendine d’Achille su 49 volontari. Lo scopo era quello di verificare se ci fossero reali cambiamenti nell’escursione articolare dei distretti anatomici interessati e se questi fossero dovuti realmente ad un cambiamento di tipo strutturale. I risultati dello studio hanno confermato come ci siano dei miglioramenti significativi nel movimento ma non nella forza, ne tantomeno della struttura muscolo-tendinea. I cambiamenti indotti dallo stretching quindi, secondi gli autori dello studio, non potrebbero essere spiegati da modifiche strutturali quanto piuttosto è stata ipotizzata una maggior tolleranza all’allungamento, indotta dall’adattamento delle terminazioni nervose.

Risultati confermati anche da un successivo studio sempre dello stesso gruppo di ricerca, in cui si notava sempre un miglioramento del movimento e una riduzione della rigidità del tendine, ma la resistenza opposta dal complesso mio-tendineo rimaneva invariata.

 

  • Cosa succede nel Running ?  

Lo studio più recente è quello del gruppo giapponese di Yamaguchi e colleghi (2015) che hanno dimostrato come un gruppo di runner che eseguiva una serie di 10 ripetizioni di stretching dinamico, più velocemente possibile, per i 5 gruppi muscolari principalmente impegnati nella corsa, avesse una performance migliore nei test eseguiti su tapis roulant. Tradotto in numeri, questi atleti correvano circa 700m in più e impiegavano circa 2 minuti e mezzo in più prima di arrivare a esaurimento muscolare, anche se non cambiava la VO2max come indice di efficienza della corsa. Risultati promettenti quindi, che però vanno analizzati con cautela perché il campione studiato era molto esiguo (solo 7 soggetti) e perché uno studio precedente del 2014 (Zourdos e coll.) dimostrava invece il contrario.

Due studi (uno del 2011 e uno del 2014) hanno dimostrato invece come lo stretching statico non modificasse ne il tempo impiegato per correre i 3000 metri ne l’efficienza della corsa: solo i primi 100 metri venivano corsi con una velocità significativamente inferiore. La funzione neuromuscolare risultava però alterata in termini di attivazione elettromiografica dei gruppi muscolari dell’arto inferiore. Allo stesso modo peggiorava l’economia di corsa, con un aumento del tempo di contatto e un ampiezza del movimento (due fattori che sono stati studiati ridurre la performance e predisporre agli infortuni) maggiori, rispettivamente, del 2% e dell’11%. Peggiorava inoltre anche l’altezza totale nel test del salto del 9%.

Addirittura uno dei primi studi sullo stretching applicato ai runner (Wilson, 2010) dimostrava come la performance fosse addirittura migliore (seppur di soli 200 metri) in chi non avesse fatto stretching, e in aggiunta aumentava anche la spesa energetica misurata in Kcal.

Risultati confermati anche da Lowery e colleghi nel 2013 che sconsigliavano di eseguire lo stretching statico prima di una performance, anche di breve durata: questo gruppo di ricercatori aveva testato gli atleti sul miglio in salita al 5% e la riduzione della performance registrata era dell’8%.

Nessun cambiamento nemmeno nella biomeccanica del gesto atletico se lo stretching statico dei flessori posteriori della coscia, era eseguito prima della corsa (Hammonds, 2012).

 

CONSIGLI PER I RUNNER: 

– Lo stretching, soprattutto quello statico, andrebbe evitato prima degli allenamenti e delle competizioni, sia aerobiche che anaerobiche, sia di breve che di lunga durata.  

– Si può optare per lo stretching dinamico, qualora questo fosse ben tollerato dall’atleta e producesse delle sensazioni positive durate la corsa  

– Lo stretching statico può essere effettuato lontano dagli allenamenti e dalle corse, in una specifica sessione d’allenamento dedicata, oppure al termine della corsa stessa, nella fase di defaticamento.  

– Per ottimizzare la performance e ridurre il rischio di infortuni, è più opportuno eseguire un programma specifico di riscaldamento pre-gara e di rinforzo muscolare durante la settimana