Allenare la forza può giocare un ruolo importante sulla cura e prevenzione dell’osteoporosi nelle donne in menopausa?

Allenare la forza può giocare un ruolo importante sulla cura e prevenzione dell’osteoporosi nelle donne in menopausa?

La pratica regolare dell’esercizio fisico organizzato, come del resto l’attività fisica spontanea legata alla vita di relazione e alle abitudini rappresenta l’elemento fondamentale di uno stile di vita sano, in grado di produrre effetti positivi sulla salute sia fisica sia psicologica dei soggetti. 

La menopausa rappresenta un momento della vita che spesso preoccupa la maggior parte delle donne, questo perché il termine della fertilità è spesso accompagnato da altri disturbi che possono essere più o meno seri. Tra questi ci sono le patologie osteoarticolari e in particolare l’aumento dell’incidenza dell’osteoporosi.

 

Evitare la menopausa è impossibile perche fa parte del ciclo di vita di ogni donna, però è possibile alleviare le complicanze osteoarticolari grazie all’attività fisica incentrata sull’allenamento della forza.

Infatti, nelle donne in premenopausa e in menopausa sono evidenziati livelli di densità minerale ossea più elevati quanto maggiore è il tempo da loro dedicato alla pratica di attività sportive.

Il processo di osteosintesi, sia nella fase di crescita sia nelle età successive, durante le quali si verifica un continuo rimaneggiamento dell’osso, ha come principale meccanismo di controllo lo stimolo meccanico costituto dalle tensioni e dalle deformazioni applicate all’osso sia dal carico sia dalla contrazione muscolare.

Cos’è l’osteoporosi? 

L’osteoporosi è una malattia cronica caratterizzata da alterazioni della struttura ossea con conseguente riduzione della resistenza al carico meccanico ed aumentato rischio di fratture. 

 

Quali sono i sintomi dell’osteoporosi?

 

Nelle prime fasi dell’osteoporosi in genere non si hanno sintomi. Negli stadi più avanzati si possono avvertire: 

  • Dolore alla schiena, causato da fratture da fragilità o da fratture vertebrali da compressione 
  • Perdita di altezza nel tempo 
  • Postura incurvata 
  • Frattura ossea

 

 

Come si diagnostica l’osteoporosi? 

La diagnosi di osteoporosi si basa in primo luogo sull’esecuzione della densitometria ossea (DEXA o MOC), un esame che permette di calcolare la densità minerale ossea (BMD – Bone Mineral Density) che è una misura della quantita di minerali contenuti in un centimetro cubo di osso. Questo valore è un indicatore della resistenza alle fratture posseduta dalle ossa: tali valori di BMD inferiori al normale sono indicativi di fragilità ossea e indicano una predisposizione da parte dello scheletro a subire fratture. 

L’osteopenia si riferisce ad una condizione dove i valori del BMD sono compresi tra -1 e -2.5 rispetto ad un soggetto sano dello stesso sesso misurato a 30 anni.

L’osteoporosi si riferisce ad una condizione dove i valori del BMD sono inferiori a -2.5, nei casi di osteoporosi grave è inferiore a -2,5 e vi è almeno una frattura da fragilità (conseguente ad un trauma molto lieve o a non dovuto a trauma).

 

 

Osteoporosi e allenamento della forza 

In ogni modo le problematiche correlate alle ossa si possono non solo prevenire, ma anche trattare efficacemente utilizzando le cautele del caso. 

Un’alimentazione corretta con la giusta quota proteica e di calcio, il mantenimento di livelli ottimali di vitamina D e una corretta attività fisica sono tutti fattori che contribuiscono al mantenimento della salute delle proprie ossa. 

È stato evidenziato che allenare la forza mantenga e migliori i valori del BMD nelle donne in menopausa. 

In particolare, è stato mostrato come l’allenamento della forza possa incrementare indicatori della sintesi osseo come collagene di tipo 1 ammino-terminale propeptide (P1NP) e ridurre i livelli di indicatori responsabili del riassorbimento osseo come il telopeptide C, frammento del collagene di tipo 1.

 

 

 

Nell’’ottobre 2017 uno studio ha associa l’attività fisica contro resistenza a un miglioramento significativo della forza nelle gambe e ad un conseguente aumento della densità ossea.

 

In questo studio sono state prese in considerazione oltre 400 donne in menopausa con osteopenia e osteoporosi (definita secondo le linee guida internazionali della presenza alla MOC di un T-score lombare e/o femorale <-1.0.), una metà è stata assegnata casualmente ad un gruppo dove venivano effettuati due allenamenti di forza HiRIT (intensi e da 30 minuti a settimana) e le rimanenti ad un gruppo dove venivano effettuate due sessioni di allenamenti di esercizi a bassa intensità COM                (con carichi che non superavano i 3kg).

 

Dopo 8 mesi dall’inizio dello studio sono state valutate le variazioni in termini di forza, prestanza muscolare e densità ossea: 

  • Nel gruppo dove venivano svolti esercizi di forza si è evidenziato un miglioramento di tutti i parametri, con un incremento significativo della forza nelle gambe del 37% circa (tabella 1) e della densità ossea di circa il 3.7% circa (tabella 2). 
  • Nel gruppo dove venivano eseguiti allenamenti a bassa intensità è stato evidenziato un peggioramento dello 0.3% circa della densità ossea (tabella 2).

 

 

Tabella 1. Variazioni percentuali della forza dei muscoli estensori e flessori dopo 8 mesi dall’inizio dello studio in donne in menopausa con osteoporosi.  

  

 

   Tabella 2. Variazioni percentuali della BMD dopo 8 mesi dall’inizio dello studio in donne in menopausa con osteoporosi.

 

Un altro dato interessante è che negli oltre 2600 allenamenti di forza registrati si è verificato un unico infortunio indicato come “lieve dolore lombare” che si è risolto nella settimana successiva.

 

Questi dati dimostrano in maniera chiara che anche nei soggetti che sono affetti da osteopenia ed osteoporosi gli allenamenti di forza (che nel caso dello studio eseguito comprendevano anche Squat e Deadlift con pesi elevati) sono sicuri ed efficaci a migliorare la condizione fisica e i valori di densità ossea. 

In conclusione, è emerso dallo studio condotto che: 

  • Allenarsi con i pesi, eseguendo anche Squat e Deadlift con carichi al 70-85% del proprio massimale (il peso massimo con il quale si riesce a fare una sola ripetizione) per due volte a settimana può essere utile per stimolare l’incremento della densità ossea e di conseguenza migliorare le condizioni fisiologiche delle donne in menopausa con osteoporosi.

 

  • Assicurarsi di svolgere gli esercizi in maniera corretta, sotto supervisione di professionisti del settore, al fine di prevenire gli infortuni e massimizzare l’efficacia degli allenamenti.

 

  • Associare l’attività fisica ad una nutrizione adeguata.

A cura di: 

Matteo Mosti 

  • Dottore in Scienze Motorie – BDc Sport Science
  • Studente del Master in Posturologia Clinica – MSc Clinical Posturology

 

 

Soffri di mal di schiena? Pensi che la chirurgia sia l’unica soluzione per risolvere il dolore? Leggi questo articolo, potrebbe esserti utile!

Soffri di mal di schiena? Pensi che la chirurgia sia l’unica soluzione per risolvere il dolore? Leggi questo articolo, potrebbe esserti utile!

La lombalgia è definita come un dolore o limitazione funzionale compreso tra il margine inferiore dell’arcata costale e le pieghe glutee inferiori con eventuale irradiazione posteriore alla coscia ma non oltre il ginocchio, che possa causare impossibilità di svolgere la normale attività quotidiana con possibile assenza dal lavoro.

Il mal di schiena ha un’altissima prevalenza (80%) ed un’incidenza del 5%, riconosciuta come il primo disturbo muscoloscheletrico, seconda patologia per prevalenza mondiale, e prima causa di disabilità sotto i 45 anni, senza differenza rilevante di genere. Il picco di prevalenza tra i 30 e 50 anni è un dato importante perché interessa popolazione in età produttiva con gravi conseguenze
economiche.

La prognosi è benigna con una percentuale di cronicizzazione inferiore al 10%.

Quali sono le cause?
Per fare delle ipotesi diagnostiche possiamo fare riferimento ad una classificazione che viene da recenti linee guida.

Il dolore lombare di natura muscoloscheletrica (meccanico), essendo spesso frutto di una diagnosi per esclusione, viene spesso definito in letteratura aspecifico.

Altre tipologie di lombalgia fondamentali da individuare facendo screening per esclusione sono quelle di natura sistemica ( ad esempio spondiloartropatia infiammatoria) o derivati da altre patologie diagnosticabili al di fuori dell’ambito muscoloscheletrico.

Altre due condizioni che spesso ci troviamo, ma non sono delle vere lombalgie, bensì patologie riferite agli arti inferiori (ricordandoci la definizione iniziale che esclude lombalgia quando c’è irradiazione oltre il livello del ginocchio), sono quelle condizioni che coinvolgono le radici nervose come una radicolopatia, oppure sindromi del canale stretto (ad esempio la stenosi cioè una riduzione del lume del canale vertebrale con possibili conseguenze neurologiche).

Cosa fare in caso di mal di schiena?
Il primo passo è consultare un professionista specializzato nel trattamento dei disturbi muscoloscheletrici che attraverso un’accurata anamnesi ed esame fisico indagherà la causa del vostro dolore. Nella maggior parte dei casi non siamo di fronte a nulla di grave se non un semplice carico eccessivo dovuto a fattori come stress, stile di vita, incidente non grave.

In pratica nella visita iniziale si dovrebbero escludere le possibilità minime che si sia di fronte a qualche patologia grave. La percentuale di persone in cui la lombalgia cronica è il campanello d’allarme per qualcosa di preoccupante è minima, nell’ordine dell’1-2%.

Dopo aver escluso queste patologie ed aver capito che si tratta di una lombalgia aspecifica, lo specialista vi darà consigli ed informazioni che siano specifici per le vostre capacità e necessità, informandovi rispetto alla natura benigna del dolore lombare e incoraggiandovi a mantenere il vostro range di attività normale tenendo il dolore sotto controllo. Per migliorare un mal di schiena
è opportuno che la persona divenga partecipe del suo processo di guarigione.

Attraverso il ragionamento clinico, il fisioterapista definirà un programma di esercizi sulla base del paziente che ha davanti. Il piano di esercizi deve avere un approccio di natura funzionale, deve quindi mirare a quei movimenti che fanno parte del repertorio del paziente.

Questo risulta essere più utile sia in termini prognostici sia in termini di aderenza del paziente al trattamento per poter
poi integrare gli esercizi nella sua quotidianità.

Il piano di esercizi deve poi rispettare una gradualità che dipende dalla presentazione clinica del paziente: in una fase iniziale l’esercizio sarà finalizzato più al recupero di un’abilità, intesa come uno di quei mattoncini necessari per ricreare un determinato movimento (forza, ampiezza articolare, capacità di rilassare la muscolatura in
pazienti che attuano strategie di cocontrazione ecc.), mentre più avanti si faranno esercizi più incentrati sul recupero di una capacità funzionale.

Per ottenere degli adattamenti è fondamentale che il paziente aderisca al trattamento. L’aderenza è definita come il grado in cui il comportamento di un paziente corrisponde alle indicazioni del professionista sanitario. 
Inoltre la terapia manuale riveste un ruolo importante nella gestione del dolore, è indicata più o meno in tutte le sue modalità e deve essere inclusa all’interno di un piano di trattamento che preveda anche esercizi ed anche altri tipi di approcci non manuali.

Quando ricorrere alla chirurgia?
I miglior candidati alla chirurgia sono quei pazienti che presentano un quadro specifico (si parla infatti di lombalgia specifica) ed identificabile con una patologia specifica, come tumore od ernia del disco sintomatica (rara).

Infatti spesso sono presenti ernie in soggetti senza dolore: l’ernia non giustifica il dolore ma rappresenta spesso un normale processo di invecchiamento della colonna!

Per quanto riguarda l’ernia discale sintomatica, una indicazione assoluta per un consulto chirurgico immediato è la presenza di sintomi riconducibili ad una sindrome della cauda equina quali anestesia a sella della regione perineale, ritenzione e/o incontinenza fecale o urinaria e ipostenia agli arti inferiori bilaterale.

Rappresentano invece delle indicazioni relative la presenza di steppage dovuto alla comparsa di un deficit motorio ingravescente in un paziente con diagnosi certa di ernia discale di L4-L5, che richieda una attenta valutazione. Altre indicazioni relative sono una durata dei sintomi maggiore alle 6 settimane, un dolore resistente che non risponde agli analgesici, un fallimento del trattamento conservativo e la concomitanza di altre patologie gravi di colonna.

Per quanto riguarda invece la stenosi sintomatica (cioè la riduzione del lume del canale vertebrale con possibili conseguenze neurologiche), in generale le principali indicazioni riportate in letteratura scientifica sono sintomi severi e invalidanti che persistono da almeno 6 mesi e resistenti al trattamento conservativo, deficit neurologici importanti o ingravescenti, claudicatio neurologica, segni evidenti di instabilità vertebrale, segni di stenosi radiologica avanzata.

A cura di:

Marinari Noemi

  •  PT
  • OMPT student

 

Running e fascite plantare L’importanza della fisioterapia nello sport più praticato di sempre

Running e fascite plantare L’importanza della fisioterapia nello sport più praticato di sempre

La corsa è un processo semplice e complesso allo stesso tempo.

 Semplice perché correre è alla portata di tutti, complesso perché quest’attività sportiva,

 una delle poche che la maggior parte delle persone pratica senza un vero e proprio apprendimento iniziale,

 in realtà richiede di conoscere determinate informazioni e di rispettare certe regole

 affinché la corsa diventi e rimanga un piacere

Gli effetti benefici della corsa sono ormai noti:

-diminuisce lo stress, allontana i problemi di salute (vita sedentaria, diabete, obesità, ictus, fumo, malattie cardiovascolari, insorgenza di tumori);

-aumenta l’aspettativa di vita, un runner vive in media tre anni di più rispetto ad un non corridore ed è un toccasana per la mente. 

La corsa potremmo considerarla uno sport accessibile a tutti, che scavalca i limiti geografici e sociali, richiede poca attrezzatura, anche solo un paio di scarpe, ed ognuno può praticarlo in base alle proprie capacità. 

Uno studio Delphi del 2015 definisce un infortunio associato alla corsa come “un dolore muscoloscheletrico, correlato alla corsa, negli arti inferiori (nell’allenamento o durante la gara) che provoca una limitazione o cessazione della corsa (distanza, velocità, durata, allenamento) per almeno sette giorni o per almeno tre allenamenti consecutivi programmati o che necessiti di un consulto medico o con un altro professionista della salute “.

Insieme al numero di runners, è però cresciuto anche il numero di infortuni da sovraccarico agli arti inferiori, che si stimano tra l’11 e 85%.

In uno studio del 2019 si è dimostrato come l’80% dei corridori avesse riportato nella sua storia di corsa almeno uno o più infortuni legati all’attività.

Gli infortuni più frequenti sono a carico del piede, del ginocchio, dell’anca e della colonna lombare:

Wiegand et al. hanno osservato come le patologie più frequenti riscontrate sono: sindrome della bandelletta ileotibiale (34%), fascite plantare (30%), stiramento dei muscoli dell’anca (25%), shin splints (sindrome da stress del tibiale) (22%), mentre negli ultra maratoneti la tendinopatia achillea e la sindrome femororotulea sono le principali patologie riscontrate. 

Si stima che il 29.5% degli infortuni avviene nei novice runner, parola usata per definire una persona che non ha mai approcciato alla corsa in passato in maniera regolare.

Nonostante molti runners sperimentano nella loro carriera diversi infortuni, non li considerano tali finchè il dolore non compromette la loro performance di corsa.

 

La causa degli infortuni è multifattoriale e spesso sono chiamati in causa sia fattori di rischio intrinseci che estrinseci; in generale sono stati documentati, alcuni modificabili e altri non. La storia di precedenti infortuni, la distanza percorsa a settimana, la frequenza di allenamento, variabili biomeccaniche come l’aumento dell’angolo q dinamico sono solo alcuni dei fattori di rischio indagati.

Alcuni fattori intrinseci sono l’avanzare dell’età, BMI elevato, storia di traumi o infortuni, diversa lunghezza tra i due arti, mal allineamenti anatomici, postura dei piedi, errati carichi sul piede.

 I fattori estrinseci riguardano invece il livello di preparazione, sovra allenamento, il tipo di scarpa e la superficie di corsa.

In base all’infortunio, si può indagare la causa che lo ha generato e concentrandosi sul parametro che lo ha influenzato in maniera maggiore, si modifica l’allenamento.

Alcuni infortuni vengono classificati come patologie di carico e si verificano dopo sessioni di allenamento in cui lo stress meccanico è il risultato eccessivo per il fisico: corsa, salti, dislivelli eccessivi. Le patologie da ripetizione invece tendono a comparire più spesso durante gli allenamenti dove vengono ripetuti gli stessi movimenti. 

Come scritto precedentemente uno degli infortuni maggiori per i runners è la fascite plantare;

 

Cosa è la fascite plantare? 

La fascite plantare è un disturbo muscolo-scheletrico caratterizzato da dolore sulla parte mediale del calcagno e, talvolta, dolore in corrispondenza della fascia plantare, è peggiore la mattina quando si compie il primo passo o comunque compare dopo un lungo periodo di inattività.

Una volta che il paziente inizia a camminare, tende a diminuire.

I sintomi si alleviano, ma non scompaiono del tutto durante il corso della giornata e sono esacerbati da attività come cammino o attività fisica prolungata.

 

Come avviene la diagnosi?

Le linee guida del 2014 affermano come la diagnosi di fascite plantare venga effettuata clinicamente in anamnesi tenendo conto dei seguenti sintomi:

1) Dolore al primo passo dopo un periodo di inattività o stazione eretta prolungata

2) Dolore tipico al mattino, al risveglio.

I test dell’esame fisico che mi possono confermare la diagnosi sono:

  • dolore alla palpazione nell’inserzione prossimale al calcagno della fascia plantare,
  • positività ai test clinici (windlass test),
  • negatività al tarsal tunnel test
  • limitato rom attivo e passivo in dorsiflessione di tibio tarsica,
  • anormale appoggio del piede (foot index score alterato) 

L’imaging di solito non è necessario per la diagnosi, tuttavia è un ottimo strumento per fare rule out con altre patologie e rilevamenti radiologici frequenti come gli speroni calcaneari non sono utili a distinguere pazienti con fascite plantare e non, in quanto possono essere presenti anche in pazienti asintomatici. 

Come si tratta?

Il trattamento della fascite plantare è per il 90% -95% dei pazienti conservativo (con fisioterapia) con risoluzione dei sintomi intorno alle 12-18 settimane.

A ragione di questo, può essere considerata una patologia cronica che può portare a disabilità e limitazione nelle attività sia di vita quotidiana che sportive se non trattato adeguatamente.

Dai sei mesi fino all’anno di fallimento della terapia conservativa, si può pensare di ricorrere alla chirurgia. 

Nel 2014 sono state redatte delle Linee Guida per la diagnosi e il trattamento della fascite plantare. Per quanto concerne il trattamento abbiamo diversi tipi di intervento:

  • Terapia Manuale con mobilizzazioni delle articolazioni e dei tessuti molli per trattare rilevanti restrizioni articolari o deficit di estensibilità dei tessuti molli degli arti inferiori
  • Stretching: stretching della fascia plantare, del soleo e del gastrocnemio garantiscono sollievo dal dolore a breve termine (da 1 settimane a 4 mesi). L’aggiunta di imbottiture per il calcagno potrebbe essere consigliata per aumentare i benefici dello stretching
  • Taping: taping antipronazione dovrebbe essere utilizzato per un’immediata riduzione del dolore e aumento della funzionalità. Tape elastico terapeutico applicato al gastrocnemio e alla fascia plantare per ottenere una riduzione del dolore a breve termine (1 settimana)
  • Splint notturni: dovrebbero essere prescritti per un arco temporale di 1-3 mesi in particolare per quei pazienti che lamentano un intenso dolore durante l’esecuzione del primo passo dopo il risveglio.
  • Esercizio terapeutico e rinforzo neuromuscolare: esercizi di rinforzo e allenamento dei muscoli che controllano la pronazione e attutiscono le forze durante le attività in carico
  • Educazione e perdita di peso: consigliare ed insegnare al paziente esercizi funzionali per mantenere un BMI ottimale ed eventualmente indirizzarlo ad un dietologo per impostare una nutrizione corretta
  • Laser e ultrasuoni ed onde d’urto
  • Esercizi e consigli specifici per il return to sport  

Nel 2005 Davis parla del processo di ri-allenamento alla corsa caratterizzato da tre punti:

1)identificare il meccanismo anomalo biomeccanico che ha causato un eccessivo carico sul tessuto

2) stabilire se i meccanismi di corsa sono stati alterati

3) facilitare il cambiamento verso meccanismi di corsa corretti e attraverso il motor learning e consolidare l’apprendimento insegnato.

 

E quindi?

Il trattamento prevede una fase di valutazione; l’obbiettivo è quello di capire il motivo della comparsa del dolore.

Solitamente in assenza di traumi al piede o ad altre articolazioni il dolore di fascite plantare è dato da un sovraccarico.

Una volta ridotto il dolore con le metodiche descritte precedentemente è necessario un programma di riallenamento, in modo da riadattare la fascia plantare e tutto l’arto inferiore, al carico

Ma come si fa?

Innanzi tutto è necessario fare una valutazione della corsa:

  • Durante la corsa l’ampiezza del passo deve essere corta: don’t ovestride!

Quindi appena il piede stacca dal terreno il tallone deve andare verso il gluteo

  • Per quanto riguarda la cadenza, dovrebbe essere tra i 165 e 175
  • Studi discordanti invece riguardo all’appoggio del piede, tuttavia pare che l’appoggio sul mesopiede risulti essere il migliore. 

Si procede quindi lavorando sul corretto schema di corsa, associando poi un lavoro più generico di coordinazione motoria, mobilità, controllo e stabilità non solo del piede ma di tutto l’arto inferiore.  

E per quanto riguarda le scarpe? Non ci sono studi che dimostrano che una scarpa sia migliore di un’altra, nessuna scarpa aiuta a ridurre la probabilità di infortunio da sovraccarico alla fascia plantare, quindi, usa le scarpe con cui corri meglio e che a te personalmente stanno più comode. 

Ricordati che la fascite plantare è un disturbo da sovraccarico, non pretendere di ritornare a correre subito gli stessi chilometri di prima, sul solito terreno.

Bisogna andare con gradi, dare tempo al corpo di riadattarsi al carico 

E per quanto riguarda il dolore?

Se ciò che ti stai chiedendo è se puoi correre con il dolore, la risposta non è così immediata

SI, puoi correre MA, il dolore deve rimanere sotto la soglia di 4 su 10

Il dolore non deve aumentare durante la corsa e la mattina successiva deve tornare a 0

Il dolore non deve peggiorare nei giorni successivi. 

Se e solo se il tuo dolore si comporta così, allora SI, puoi correre, ma ricordati, sempre gradualmente!

A cura di:

GIULIA SANGUINETTI, PT, OMPT

  • Orthopeadic Manipulative Physical Therapist (OMPT)
  • Fisioterapista dei disturbi vascuolo-linfatici
  • Fisioterapista esperta in fisio-pilates.